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(Verso il 2006, il vulcanico ingegner Vittorio Marchis mi chiese un raccontino per un'antologia di racconti intitolata Bestiario 2.0: un "bestiario" fantastico, sull'esempio di quelli medioevali ma aggiornato ai nostri tempi, per tanti versi non meno sinistri. Per la cronaca, il libriccino fu pubblicato l'anno seguente dalla Riccadonna Editori, una piccolissima ma bellicosa casa editrice di Torino).

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IL CINGHIACITORIO

- I tuoi racconti, Marco, sono pieni di fascino - disse Kublai Kan - Ma tu mi parli di città che se pure esistono si trovano al di là delle colonne d'Ercole, oltre i regni degli Iperborei o degli Atlantidi. Ma io vorrei che mi parlassi invece di qualche città che ti è nota per esperienza tua personale, ubicata in luoghi che io posso identificare sulle carte nautiche e le mappe dei Paesi già cogniti.

- Tutte le città di cui ti parlo esistono, sire - rispose Marco Polo - ma sono città invisibili, come le ha ben definite un letterato mio conterraneo. Vanno ricercate dentro di noi, poiché sta a noi e a noi solamente vedere ciò che gli altri non vedono, toccare ciò che per gli altri è concetto astratto, respirare nell'aria i profumi che nessun altro avverte. Tuttavia, per soddisfare il tuo desiderio, ti parlerò di una città che si colloca all'esatto centro di un'altra che non può non esserti nota, quanto meno di fama: la città di Roma.

- Roma? Non è forse l'antica culla della vostra civiltà?

- Così è, difatti. Ma nel cuore stesso di Roma c'è una seconda città, talmente dissimulata nella prima che i numerosi turisti che ci passano ai margini non se ne rendono accorti. E' una città vegetale, un bosco atro e fittissimo in cui tronchi di querce e di ulivi si intrecciano ad altri che hanno nomi sconosciuti allo stesso Linneo, mentre sui vari fusti si abbarbica l'edera, nel sottobosco sbocciano rose e margherite, e biancofiori di tutte le forme costellano tappeti di trifoglio.

- Possibile che io non ne abbia mai inteso parlare...? Chi vive, dunque, in codesta città?

- Come già ti ho detto è pressoché impossibile, dall'esterno, distinguerla dalla città che la ospita. Alberi e cespugli crescono allo stato selvaggio, e il più forte sottomette il più debole in un continuo divenire e modificarsi degli equilibri interni. Tuttavia - grazie a quella capacità di mimesi di cui la natura è capace e della quale non cesseremo mai di sorprenderci - tutto questo viluppo arboreo si è dato un ordine, assumendo l'aspetto mendace di una normale città, formata da strade e palazzi costruiti dall'uomo: nessuna meraviglia, dunque, che essa sfugga alla maggior parte degli occhi del turista distratto. Quanto alla tua seconda domanda, al suo interno non vivono esseri umani, ma solo esponenti di una specie animale detta dei "cinghiacitori".

- "Cinghiacitori"? E' un nome singolare, che non ho mai udito... Di quale etimo può essere figlio?

- Ti posso dire soltanto che se il bosco è nel cuore di Roma, nel cuore del bosco c'è un rilievo denominato anticamente Citorio. Ma qui finisce ciò che si sa per certo: non solo il nome, ma anche l'origine di questa specie si perde nella nebbia del tempo, là dove la favola si confonde col mito. Leggenda vuole che il primo cinghiacitorio nasca dall'unione carnale di una femmina umana con un porco salvatico, l'antico aper, o sus selvaticus, o porcus singularis, dei nostri padri latini. Quello che è certo è che ormai ne esiste una folta colonia, composta di maschi e di femmine, che si organizzano in branchi, eleggono i rispettivi capi e si scontrano continuamente fra loro per difendere o conquistare il primato sul controllo del territorio. In questa lotta per la sopravvivenza la natura, nella sua infinita saggezza, li ha dotati di zanne e di artigli che ben difficilmente si fanno sfuggire la preda. Dalla madre hanno ereditato l'andatura eretta e un aspetto approssimativamente umano, dal padre hanno preso l'arroganza e la forza. Del vello originale hanno conservato solo pochi ciuffi qua e là, ma a quei pochi sono talmente affezionati che si dice che uno dei più noti capo-branco si sia sottoposto a un'operazione assai delicata per ritrovare il vello perduto.

Per quanto è dato sapere, i giovani cinghiacitori sperano di diventare prima o poi capi-branco, e nell'attesa di scalare la gerarchia sociale si rassegnano a svolgere le mansioni più umili, come spostare i tronchi caduti e grugnire in segno di assenso ogni volta che il loro capo-branco esprime un'opinione. Le gerarchie, all'interno dei vari gruppi, sono rigidissime. Nessun subalterno oserebbe mai mostrare le zanne a un superiore, preferendo invece, per istinto connaturato, aspettare il momento più adatto per attaccarlo alle spalle e dilaniarlo. Nonostante questo, essi hanno fortissimo il senso dell'appartenenza a un'unica specie, e manifestano un sovrano disprezzo, quando non un totale disinteresse, per tutti coloro che vivono al di fuori del bosco; all'interno del quale, ben protetti da un labirinto inestricabile di antri e di corridoi di verzura, attendono alla loro principale e quasi unica attività: procurarsi il cibo di cui sono ghiotti...

- Di che cibo si tratta? Forse le carni di altri animali, o forse i frutti delle specie vegetali delle quali il loro bosco abbonda?

- Nè l'una nè l'altra cosa. I chinghiacitori prediligono un cibo che si trova in natura nelle forme più disparate e stravaganti: talvolta buste o valigette rigonfie di materiale cartaceo, talaltra sedili imbottiti su cui posare i deretani, o ancora attestati di proprietà o partecipazione in intraprese commerciali. Nella ricerca e nel procacciamento di questo cibo essi rispondono solo all'istinto, affrancati da tutti quei lacci di natura etica ed estetica che condizionano spesso i comportamenti degli esseri umani: se qualcuno li ostacola, quindi, non esitano a caricarlo a testa bassa e a distruggerlo, non rifuggendo da nessuna ferocia e nessuna bassezza pur di rimuoverlo dal proprio cammino.

- Quello che mi racconti, Marco, mi riempie di raccapriccio. Come è possibile che tutto questo avvenga senza che gli esseri umani se ne rendano conto o facciano alcunché per frenarli?

- Qualcuno, per la verità, lo ha tentato: ma nessuno di coloro che hanno avuto l'audacia di entrare in quel bosco è mai tornato a dar conto di che cosa vi ha trovato. Si dice che in seguito a qualche disegno diabolico questi coraggiosi siano diventati a loro volta dei cinghiacitori, contribuendo a ingrossarne ulteriormente la colonia. E c'è di peggio: il dilatarsi della comunità porta con sè il dilatarsi del territorio. La città dei cinghiacitori, infatti, continua ad allargarsi in modo subdolo e costante, difficilmente avvertibile a un occhio non allertato: molti palazzi limitrofi al bosco sono già stati inglobati per creare nuove tane e nuovi luoghi di ritrovo, e anche alcune strade del centro di Roma sono ormai state interdette alla popolazione. Intorno a un perimetro sempre più esteso sorgono e continuamente trasmutano tutta una serie di strumenti che tendono a scoraggiare il viandante: piloncini che emergono dall'asfalto, varchi muniti di telecamere, cartelli intimidatori, nonché un numero imprecisato di cinghiacitori del livello sociale più basso (malamente travestiti da umani) che fermano chiunque, turista o aborigeno, tenti di oltrepassare la soglia di quella che non è fuori luogo definire una "città proibita˛...

Marco Polo tacque. Il Gran Kan rimase a lungo in silenzio, osservando gli ultimi bagliori di un sole che stava scendendo sotto la linea dell'orizzonte lontano. Alcuni uccelli volavano liberi nel cielo di smalto, ignari della follia degli umani.

- Lo scenario che mi hai delineato - disse finalmente il monarca - sembra condannare Roma alla stessa sorte che è già stata di Babilonia. Che cosa resta da fare, se l'animale avrà la meglio sull'uomo?

- La risposta, sire, la possiamo trovare in quello stesso volume a cui alludevo all'inizio... Sul tappeto di ricco broccato, ai loro piedi, c'era un tomo in ottavo con la sovracoperta bianca e nel centro un'immagine arcana: una roccia sospesa nel cielo, alla cui vetta si stagliava la sagoma di un castello, pietrigno come la roccia stessa. Marco Polo lo prese, lo aprì all'ultima pagina e lesse le ultime righe:

" ... L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte, fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio".

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