Lo scrittore

DISSOLVENZA INCROCIATA

Scarlet Allara non era una bellezza: o meglio, non lo era secondo i codici che imperavano all'epoca. Erano passati più di dieci anni dalla fine della guerra, ma in molte persone permaneva il ricordo delle tessere annonarie, della fame, degli scheletri viventi che riemergevano dall'inferno dei campi di concentramento, anche se ci si sforzava di seppellire quei fantasmi del recente passato sotto le lusinghe del nuovo benessere economico che pian piano invadeva il Paese. I negozi si riempivano di generi voluttuari, le case di elettrodomestici, le strade di automobili, e anche il modello della bellezza femminile si adeguava a questa corsa all'abbondanza. Andavano di moda donne copiose e floride, non immemori delle fattrici di mussoliniana memoria; dall'America, che già stava prendendo il controllo di modi e di mode, di balocchi e consumi, era arrivata una nuova attricetta piena di curve chiamata Marilyn Monroe, divenuta popolarissima da un giorno all'altro con un film melodrammatico intitolato Niagara; e da noi infuriava il confronto tra Gina Lollobrigida e Sophia Loren, in una gara che Giuseppe Marotta aveva definito sulle pagine de "L'Europeo" "la guerra delle maggiorate fisiche".
Maggiorata, Scarlet non lo era di certo: quando durante la guerra percorreva le strade di montagna della bassa Valle di Susa, aveva quattordici anni ma ne dimostrava quattro o cinque di meno. Nessun repubblichino e nessun soldato tedesco aveva mai sospettato che quella bambina spaurita con le treccine rosse nascondesse, dietro due grandi occhi verdi che sembravano ancora più grandi in quel faccino smagrito, un coraggio da adulto e una volontà già allora di ferro: cosa che le aveva permesso di scorrazzare liberamente su e giù in bicicletta, facendo la staffetta fra il comando clandestino del CLN in città e le formazioni partigiane della Val di Susa. Anche adesso che di anni ne aveva ventisette continuava a sembrare molto più giovane e più indifesa di quanto non fosse in realtà: il corpo le si era arrotondato e riempito nei punti giusti ma restava sdutto, minuto e poco appariscente; e i pantaloni maschili e i maglioni che era solita indossare facevano il resto, occultando tutto quello che c'era sotto in modo efficace e geloso.
Non bisogna credere, tuttavia, che questa tenace lotta contro la propria femminilità riuscisse a cancellarne il fascino: a garantire quest'ultimo provvedevano una faccetta impunita spolverata di efelidi, una bocca spesso indurita dalla determinazione ma all'occorrenza dotata di un sorriso che le illuminava l'intero volto, e un colore di capelli che anche tagliati corti si accendevano al bagliore del sole di mille riflessi ramati. Tutte cose che negli anni del liceo, e poi in quelli dell'università, le avevano attirato molte invidie da parte delle compagne femmine e molto interesse da parte dei compagni maschi: alcuni dei quali, respinti cortesemente ma con fermezza, avevano tentato di risolvere il problema ricorrendo alle maniere spicce, salvo poi rendersi conto che passare a vie di fatto con la Allara era più pericoloso che andare a prendere a sganassoni una tigre incontrata nella giungla.
Scarlet aveva perso i genitori sotto un bombardamento e non ci aveva messo molto a capire che la vita non sarebbe stata facile per una ragazza sola che stava diventando donna. E anche di un'altra cosa si era accorta ben presto: che il fatto di essere di corporatura minuta ma di aspetto niente affatto sgradevole rappresentava solo un problema in più. Oltre che infagottarsi in abiti poco femminili, aveva quindi seguito un corso di "judo", una disciplina di lotta giapponese per la difesa personale; e poiché durante la guerra, fra le altre cose, era venuta in possesso di una pistola e aveva imparato a usarla, non appena era stato possibile aveva preso il porto d'armi e comperato un revolver a canna corta che spesso portava con sè, infilato nella cintola sotto il maglione.
Lo portava, ad esempio, ogni volta che andava fuori città da sola, come oggi. I boschi delle pendici del monte Pirchiriano, all'imbocco della Val di Susa, avvampavano nel sole come i capelli di lei, e l'autunno sembrava voler compensare con una serie di giornate terse e bellissime una primavera di piogge devastanti e un'estate particolarmente afosa. Scarlet aveva lasciato la strada che da Avigliana saliva verso la Sacra di San Michele, imboccando uno dei sentieri alla base del dirupo su cui sorgeva l'abbazia; e dopo alcune decine di metri era stata costretta a fermarsi perché il viottolo era diventato troppo sconnesso ed erto per riuscire a percorrerlo in Vespa. Messo il bloccasterzo e aggiunta per scaramanzia una grossa catena, che inchiavardava la sua cavallina 125 al tronco di un castagno, aveva proseguito a piedi, respirando a grandi sorsate l'aria fresca dei cinquecento metri.
Alle sue spalle, fra gli alberi, si intravedeva la macchia azzurra dei laghi di Avigliana, e in basso, sul fondovalle, due sottili vermetti paralleli, ogni tanto attorcigliati fra loro. Quello color verdemarcio era il corso della Dora Riparia, che ruscellava con aria di niente giù dal Monginevro, cercando di far dimenticare le devastazioni compiute pochi mesi prima. Quello grigio, invece, era la strada statale che da Torino saliva verso Susa e verso i valichi alpini, ove erano passati un tempo gli elefanti di Annibale e le armate di Napoleone. Adesso ci passavano solo più delle formichine che altro non erano che camion e automobili: rese ancora più minuscole, queste ultime, dal fatto che si trattava in gran parte di vetture Seicento, la nuova utilitaria della Fiat che aveva preso il posto della Topolino e stava diventando la macchina più venduta in Italia. Dall'altra parte della valle, infine, si vedevano l'abitato di Almese e la strada che saliva da un lato al Colle del Lis e d all'altro al Musiné, una montagna cupa circondata da un alone di esoterismo: le voci popolari parlavano di questa vetta brulla come di un luogo privilegiato di atterraggio dei cosiddetti UFO, i chiacchieratissimi "dischi volanti". In realtà, tutto ciò che si sapeva con certezza era che nottetempo erano state viste lassù delle luci, ma da qualche mese la psicosi dei dischi volanti era cresciuta a tal punto che ne avevano parlato non solo i giornali e la radio, ma anche la giovanissima televisione: tutti concordi nel ritenere più plausibile l'ipotesi dei vascelli provenienti da Marte che quella di una comitiva di burloni armati di grosse torce elettriche.
Scarlet si fermò di fianco a una roccia, guardandosi attorno. Li conosceva come le sue tasche, quei sentieri e quei boschi; aveva imparato a conoscerli quando i nemici non erano più cartaginesi, spagnoli o francesi ma indossavano la divisa grigioverde della Wehrmacht o quella nera delle SS. Quante volte si era già fermata in passato in luoghi simili a quello, frugando con gli occhi fra gli alberi con tutti i sensi allertati allo spasimo; ma quanto diverso era allora il suo sguardo, lo sguardo sospettoso di un animale braccato per il quale ogni ombra in movimento, ogni riflesso di sole su un oggetto metallico poteva rivelare la presenza di un cecchino e consentire, se visto in tempo, di sfuggire a un colpo di fucile o alla raffica di una machine-pistole. Adesso lo sguardo non era meno vigile di un tempo, ma la posta in gioco non era più la vita: era invece il cappello lucido e tondo del fungo porcino, che Scarlet, cercatrice esperta fin da quando saliva lassù con suo padre, sapeva dove e come stanare in mezzo al muschio del sottobosco.
Quello della ricerca dei funghi, per la verità, era poco più che un pretesto, poiché il vero obiettivo della ragazza era semplicemente di respirare un po' di autunno nell'aria di mezza montagna. Scarlet non era una musona, ma molto spesso le era successo di considerare insulsi e insopportabili i suoi compagni di scuola e di università. Non amava quindi le uscite collettive, che si risolvevano per lo più in grandi mangiate nei ristoranti del centro o in stracche incursioni nelle "sale danze", né le feste in case private dove non mancava mai qualche furbone che abbassava le luci e cercava di scivolare qua e là con le mani; sicché si era a poco a poco autoemarginata da ogni gruppo, preferendo dedicarsi alla sua passione per la montagna. Questa passione si traduceva d'inverno in lunghe ed esaltanti salite in neve fresca con le pelli di foca sotto gli sci, e nelle altre stagioni in passeggiate non meno lunghe per boschi e pietraie, lungo sentieri conosciuti da pochi.
Questa passione, per la verità, non era l'unica: ce n'era una seconda, ed era il piacere di andare al cinema. Quale rapporto ci fosse fra le due cose, non era facile dire: forse dipendeva dal luogo in cui essa abitava, che era un antico teatro di posa situato nella cintura torinese; o forse aveva a che fare con l'ampiezza degli orizzonti che entrambe le attività spalancavano, orizzonti di cieli, di nuvole e vette in un caso, orizzonti di fantasia nell'altro. Fatto sta che Scarlet aveva l'impressione di uscire da un mondo che le sembrava stretto solo quando si arrampicava su per le pendici di una montagna o si immergeva nel buio di una sala cinematografica: fosse questa un locale qualunque o la saletta periferica del cine Bernini, dove si svolgevano le proiezioni del Centro Universitario Cinematografico e dove lei ricuperava pian piano tutto il cinema del passato. Amava Dreyer, Eisenstein e Lang, digeriva con diligenza anche i "classici" più datati e noiosi, ma la sua passione restavano gli sfarzosi film in technicolor con cui Hollywood aveva inondato l'Europa subito dopo la guerra: storie passionali come Via col vento o Duello al sole, storie fantastiche come Il ladro di Bagdad, film di cappa e spada come il vecchio Le avventure di Robin Hood o il più recente Scaramouche. Soprattutto questi ultimi la divertivano e la esaltavano; ed era singolare che il suo carattere forte presentasse una breccia così vistosa in corrispondenza di sentimenti che lei stessa riconosceva come infantili e romantici. A questo cedimento si abbandonava tuttavia con una certa mollezza, come per un bisogno di ritorno a quell'infanzia che la guerra le aveva scippato, e senza vergognarsene più di tanto: al punto da tenere attaccato alla parete di camera sua il manifesto di un mitico film intitolato Il quarto moschettiere, su cui campeggiava l'atletica figura di Robert Douglas, uno dei più scanzonati e intrepidi spadaccini di Hollywood.
Queste precisazioni potrebbero apparire superflue, soprattutto nella fase iniziale di un racconto in cui si vorrebbe capire non tanto di chi si parla quanto cosa succede o sta per succedere. Ma se ne comprenderà ben presto il motivo, poiché mentre Scarlet, avendo inutilmente perlustrato con gli occhi la vegetazione del sottobosco, si accingeva a riprendere il cammino, sentì provenire dall'alto un rovinoso rumore di rami spezzati. Alzò gli occhi di scatto, come soleva fare un tempo alla repentina coscienza di un pericolo; e poi subito fece un balzo di lato, perché dalla parete della montagna che quasi a picco sovrastava il sentiero stavano franando dei sassi. Alcuni, abbastanza grossi da rappresentare un serio pericolo, caddero con tonfi sordi a pochi passi da lei; quasi nello stesso momento i cespugli soprastanti si aprirono sotto un urto violento, e dall'alto precipitò un cavallo... Sì, proprio un cavallo terrorizzato e scalciante nell'aria, un bel morello c orvino di media statura, che andò a schiantarsi a terra con un nitrito di terrore che l'eco rimbalzò lontano.
Scarlet osservò incredula la povera bestia, che adesso giaceva immobile in mezzo al sentiero muovendo debolmente una delle quattro zampe. A parte il disorientamento che le provocava un evento imprevedibile come una caduta di cavalli dal cielo, notò con stupore che l'animale aveva finimenti ricchissimi e una sella di foggia assai strana, piena di arabeschi d'argento e fissata sotto il ventre da una striscia di velluto a ricami floreali. Stava per avvicinarsi per vedere cosa poteva fare per portargli aiuto, quando le venne fatto di alzare nuovamente il capo nella direzione da cui era precipitato: e a questo punto i suoi pensieri imboccarono di colpo una corsia d'emergenza perché lì, una diecina di metri più in alto, a malapena trattenuto dalla vegetazione che non era riuscita a fermare la bestia, c'era il corpo di un uomo.
La ragazza non esitò neppure un istante: aggrappandosi alle radici degli alberi, saggiando con il piede le pietre su cui di volta in volta appoggiava il peso del corpo, incominciò ad arrampicarsi lungo la parete della montagna; in meno di un minuto raggiunse i cespugli, trovò un precario equilibrio incastrandosi in mezzo a due rocce e afferrò il corpo immoto in modo abbastanza saldo da impedirgli di scivolare a valle.
Interdetta, si rese conto che colui che stringeva fra le braccia indossava un abito di velluto di foggia settecentesca, riccamente decorato d'oro e d'argento, e sulle spalle portava un mantello lacerato in più punti e macchiato di sangue; altro sangue chiazzava le ciocche di capelli biondi che nella posizione in cui si trovava la testa, piegata in avanti nel vuoto, ricadevano a coprire il viso.
Senza allentare la presa la ragazza spinse indietro la schiena, modificando pian piano la posizione dei due corpi allacciati, fino a che il capo dell'altro non oscillò su se stesso, restò un attimo in equilibrio precario e ricadde all'indietro sulla spalla di lei. E fu a questo punto che ogni stupore scomparve, sostituito da quella sorta di lucida accettazione di fatti impossibili che è propria dei sogni: perché quel volto attraente Scarlet lo conosceva fin troppo bene, l'aveva emozionata e sedotta centinaia di volte e la osservava ogni sera, con un sorrisetto complice e provocatorio, mentre lei si spogliava per andare a letto. Era il volto di Robert Douglas, il celebre attore americano di film d'avventure: che a rigore avrebbe dovuto trovarsi a molte migliaia di chilometri di distanza, in qualche teatro di posa di Hollywood, Los Angeles, U.S.A., e invece era proprio lì, svenuto, fra le sue braccia, sulle pendici del monte Pirchiriano, a pochi chilometri da Torino, Piemonte, Italia.

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