Hanno cambiato faccia: le recensioni

HANNO CAMBIATO FACCIA
(Federico Carnazzi, Cineforum, ottobre/dicembre 1972)

I - UNA PRECISAZIONE NECESSARIA

Ho assistito, giorni fa, ad un dibattito sul film Hanno cambiato faccia di Corrado Farina cui partecipava lo stesso regista; la maggior parte delle critiche mosse al film verteva sulla sua scarsa incisività politica, sul suo facile qualunquismo, sulla mancanza di una valida analisi della situazione storico-sociale che è alla base della storia. Mi pare necessario fare una precisazione: ogni opera creativa ha alla base del suo formarsi una idea, un'intuizione, una visione del mondo del suo autore (è chiaro che mi riferisco qui in particolare maniera a quei film in cui il regista abbia almeno collaborato al nascere del soggetto o della sceneggiatura) che ne diviene il motivo di essere del film, il perno centrale intorno a cui ruotano e si sviluppano poi in sintonia od in antagonismo tutte le varie fasi che ne segnano lo sviluppo narrativo.

Ricercarvi, quindi, significati ed analisi di problemi estranei e marginali all'intuizione centrale, può essere utile per un discorso che vada al di là dell'opera, attraverso riferimenti in maggiore o minor misura giustificati dalla sua tematica, ma è un'operazione che non riguarda il giudizio di merito sull'opera stessa e sul suo autentico valore.

Questo discorso, valido per qualsiasi forma di espressione o comunicazione, mi pare essere ancora più calzante per quanto riguarda il cinema dove le possibilità di libertà espressiva sono forse più ridotte che in altri campi; infatti da una parte l'essenza stessa del cinema, identificato come mezzo di rappresentazione della realtà (poco importa se oggi gli studi teorici ed anche una parte della sperimentazione pratica si sono allontanate da queste concezioni per intraprendere nuove vie, ciò che conta è che il grosso pubblico vede ancora nel film un tipo di riproduzione della realtà legato a moduli narrativi ben codificati), e dall'altra le ben note esigenze di mercato degli organi di produzione e di distribuzione, fanno sì che in generale l'ambito di un'opera cinematografica sia già non solo delineato in partenza, ma anche abbastanza circoscritto e limitato fin dal suo sorgere a livello di idea.

Il film di Corrado Farina è una diretta conferma di quanto detto fin qui, in quanto si basa tutto su quell'unica intuizione centrale, in questo caso il perpetuarsi sotto apparenze diverse del vecchio mito del Vampiro, che, come dicevo più sopra, anima e muove tutto il racconto. Mi pare che su questo punto le intenzioni del regista siano fin troppo chiare (Farina ricorre ad alcuni espedienti fin troppo didascalici per focalizzare la nostra attenzione sull'idea che è centro del film: vedi l'esplicito richiamo al più famoso vampiro della storia del cinema, il Nosferatu di Murnau, o l'evidente esemplificazione contenuta nel titolo e chiarita a sua volta da una battuta della storia, o vedi ancora la citazione marcusiana del finale che svela per intero la facile simbologia di Nosferatu), che appunto proprio da qui si debba partire per una corretta analisi di tutta la vicenda.

Dico subito che quest'opera prima del giovane regista torinese mi è piaciuta per la sua capacità di amalgamare i vari elementi, stilistici e di contenuto, in un tutto unitario dotato di una sua impronta particolare.

E mi spiego meglio: l'opera di Farina si avvale innanzitutto di un soggetto, il mito del vampiro, trattato con una capacità di reinvenzione notevole sì che non sono più, o non soltanto, gli aspetti orrorifici e granguignoleschi della tradizione quelli che emergono dal film, ma sono piuttosto le sottili armi e corrosioni dell'era moderna, la tecnologia, la smania di potere, la pubblicità, che formano la violenza della storia; in secondo luogo la scelta del modulo stilistico, vago, ambiguo ed impreciso fa sì che tutta la vicenda sia un continuo sovrapporsi ed integrarsi di due piani completamente diversi: da un lato il puro "divertissement", la storia irreale e fantastica in cui coinvolge lo spettatore, dall'altro la continua parabola, la metafora storico-sociale.

Una prima analisi del film ci fa infatti subito rilevare come la sua struttura sia semplice, lineare, scandita da alcuni nuclei narrativi elementari e soprattutto dalla presenza di alcuni personaggi chiave dalla dimensione chiaramente simbolica.

La prima verifica di un tale tipo di lettura del film la troviamo nel viaggio di Alberto e Laura; dopo una partenza iniziale dal tono analitico descrittivo (di Alberto veniamo a conoscere vari dati concreti, il tipo e la sede del suo lavoro), il regista abbandona sempre più l'analisi reale dei suoi personaggi per concentrare l'attenzione sulle loro idee; così ben presto Alberto e Laura non sono più due esseri viventi con tutte le possibili sfaccettature che il termine comporta, ma piuttosto i simboli astratti di due mondi completamente diversi, le ideologie parlanti di due schemi di vita radicalmente opposti: quello dell'uomo è il mondo della pianificazione della carriera, del denaro, della ragione; quello della donna il mondo dell'istinto, dell'amore, della libertà... e il dialogo tra i due è dialogo tra sordi.

In identica chiave simbolica va visto il personaggio di Nosferatu, non più semplice boss della industria, ma incarnazione suprema del potere, e come tale novello vampiro che non si nutre più di sangue, ma che tutto fagocita ed assimila (vedi la trasformazione operata su Laura alla fine del film) nella sua logica di potenza, denaro, e violenza.

II - IL POTERE SI AGGIORNA

Sempre all'interno di questo aspetto simbolico del film, Farina analizza anche quelli che sono oggi gli strumenti tipici del potere e ne individua soprattutto due: l'uso sempre più indiscriminato della pubblicità e l'incalzare della tecnologia. Per quanto riguarda la pubblicità, senza dubbio si nota nel film la presenza di un autore, Farina appunto, che in tale ambiente è nato e vissuto (ho girato circa mille sketches pubblicitari, ammette): infatti i richiami a questa attualissima forma di violenza sono ossessivi, onnipresenti, esasperati in alcuni casi fino al limite del grottesco, a volte espliciti e diretti, altre volte impercettibili, a livello di sfogo inconscio, quasi un desiderio catartico di liberazione, un monito allo spettatore sui pericoli della pubblicità da parte di qualcuno che ne conosce i meccanismi e ne teme il potere. In alcuni casi poi, Farina raggiunge anche una notevole compiutezza espressiva ed una forte potenza d'incisione come ad esempio nella ricostruzione dei vari caroselli pubblicitari, dalle tinte fortemente grottesche, o nelle sequenze della doccia dove l'accostamento suono-immagine (da una parte una voce calda e suadente, frasi ambigue dal contenuto sessuale abbastanza esplicito, e dall'altra il corpo di Corinna che lentamente si dà ad Alberto) esprime in maniera sottilissima il legame che sempre più vincola le nostre azioni, perfino le più intime e personali, ai dettami della pubblicità; di contro esistono nel film alcuni cedimenti come ad esempio nelle passeggiate romantiche di Alberto e Corinna dove non è ben chiaro fino a che punto Farina voglia ironizzare su se stesso o invece il vecchio mestiere gli abbia preso la mano inducendolo ad utilizzare quegli elementi (le corse, i capelli smossi dal vento, i colori pastello) che sono ormai tipici di un certo lirismo sentimentale da carosello.

La seconda colonna portante del potere è, in Hanno cambiato faccia, la tecnologia; di essa il film ci mostra cause ed effetti, circostanze e conseguenze, senza però pretendere di eseguire un'analisi di tipo sociologico, lontana da quell'idea di partenza di cui ho più sopra parlato, ma sempre rapportandola alla figura del vampiro e sempre all'interno di quella chiave simbolica che ho detto essere una delle caratteristiche della storia. Tecnologia oggi vuoi dire alienazione, automazione e meccanicismo, pianificazione e livellamento, non solo delle carriere ma anche delle coscienze, della capacità di differenziarsi ed agire come esseri liberi e razionali secondo proprie scelte autonome, vuol dire sfruttamento sistematico degli stimoli naturali e istintivi ed assoggettamento incondizionato alle leggi del grande Moloch del progresso; ed il film offre a chi li sa scorgere tutti gli spunti necessari a cogliere la complessa realtà che ci circonda, dagli esempi più semplici ed evidenti quali la divisione delle cariche distribuita ai vari piani del palazzo e il cibo tramutato in sostanza anodina ed indifferenziata, a quelli più sottili come il libro di Nosferatu o le "voci" (i belati) ossequianti e condiscendenti di un gregge ormai ammansito ed istupidito, e ancora a quelli più sottilmente crudeli come la versione aggiornata del bersaglio che non cade più come nei vecchi tirasegni ma emette il lamento di un uomo colpito mortalmente.

Tutti questi elementi non appaiono tuttavia nel film in maniera isolata o gratuita, il che li renderebbe troppo schematici e didascalici, ma piuttosto all'interno di un racconto abbastanza serrato in cui Farina si preoccupa continuamente di tenere desta l'attenzione dello spettatore non abbandonando mai la dimensione misterioso-fantastica che si addice ad una storia di vampiri di stampo tradizionale; ecco quindi che tutta la vicenda è costantemente caratterizzata da un insieme di atmosfere inquietanti, di fatti strani e di piccole notazioni che continuamente sembrano volerci far credere al mito del vampiro e alla sua immortalità (ricordiamoci il terrore delle vecchie del villaggio, lo sparire improvviso del benzinaio, la N caduta dalla tomba, lo straccio bianco nel parco, ecc.); quest'ultimo in definitiva pare essere l'aspetto più vero del film, l'idea che muove ed ispira tutto il racconto ed è infatti all'interno di questo schema mitico-orrorifico che si collocano e si ordinano tutti gli aspetti che fin qui abbiamo analizzato.

Farina rivela qui l'abilità di saper costruire il suo film in maniera tale che nessuno degli argomenti da lui trattati prenda il sopravvento e lo spettatore sia costretto, sotto l'apparenza del facile "divertissement ", ad entrare in contatto con realtà ben definite della società contemporanea: tecnologia, pubblicità e vampirismo appaiono e scompaiono nell'alternarsi delle sequenze o addirittura all'interno di una sola (esemplare in proposito quella ossessiva dei guardiani motorizzati che unifica tutti e tre gli aspetti) e danno all'opera quel tono di unico magma di fantasia e di simbolo, di reale e di irreale, di racconto avvincente o di nota critica che costituisce il suo carattere peculiare e il suo pregio migliore.

Ciò non toglie che, proprio per questa sua compattezza, il film rischi di conferire all'intuizione su cui è basato un rilievo tale da farla apparire "esauriente" rispetto alla complessità della materia affrontata: c'è il rischio - voglio dire - che tutto si spieghi con il "demonismo" della tecnologia, vista non più come strumento di un ben determinato potere, storicamente e politicamente identificabile, ma come una sorta di misteriosa entità metafisica, indipendente dalla volontà degli uomini e dalle strutture della società.

E' chiaro che, in questo senso, il film può favorire una interpretazione sostanzialmente oscurantista e reazionaria della realtà contemporanea, qual'è quella consistente nell'attribuire alla scienza e alla tecnica in se stesse responsabilità che sono invece di chi ne fa un determinato uso, finalizzandole al profitto, anziché alla liberazione dell'uomo dal bisogno, dalla sofferenza e dalla paura.

L'energia atomica - per fare un esempio anche troppo banale - non è demoniaca in sé, ma lo diventa nel momento in cui è frutto di uno sforzo teso unicamente ad obiettivi militari e viene effettivamente impiegata a fini di distruzione. La ricerca biomedica - viceversa - non può non apparire come un'attività meritoria, ma diventa tutt'altra cosa nel momento in cui è subordinata agli interessi di chi fabbrica medicinali più che a scopi umanitari o è volta addirittura a fini di manipolazione genetica, per creare automi funzionali allo sviluppo della produzione. Due esempi banali, ripeto, ma che bastano a chiarire come gli strumenti del progresso, nella loro oggettività, non siano né demoniaci né angelici, ma prendano l'uno e l'altro carattere a seconda del potere che li controlla e dei fini che questo gli assegna, per cui sarebbe assurdo vederli come qualcosa di autonomo e di responsabile della propria eventuale mostruosità, col risultato di mettere fuori causa il sistema in cui si inquadrano.

Non è questo, a mio parere, l'intendimento del regista: la figura di Nosferatu è lì appunto a personificare il potere che si serve del progresso tecnologico ai propri fini. Ma, per lo stesso carattere misterioso che circonda questa figura, c'è effettivamente la possibilità che essa appaia come una proiezione della tecnologia in quanto tale e che dia luogo alla semplicistica, ed evasiva, spiegazione di cui si diceva prima.

E 'un'ambiguità che va rilevata perché, se è vero che il film va giudicato in se stesso, è anche vero che, nel momento in cui entra in contatto col pubblico, si inserisce oggettivamente in un discorso generale al quale non può essere rapportato: un discorso sulla società contemporanea che non guadagnerebbe certo in chiarezza, per intenderci, se si attribuissero al demonio (alla tecnologia come incarnazione vampiresca del Male) le responsabilità del capitale.


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