Dicono di lui --> Giovanni Marchesi

La letteratura italiana e il cinema

CORRADO FARINA

Corrado Farina (1939-vivente) è stato dapprima autore di caroselli per lo studio Testa, poi, negli anni Settanta, regista di film di genere (Hanno cambiato faccia, 1971, Baba Yaga, 1973), infine documentarista e autore di film di montaggio nonché saggista molto attento al cinema, ai fumetti, alla pubblicità e a tutto il mondo della comunicazione in genere. A partire dagli anni Novanta si è cimentato anche nell'attività narrativa, scrivendo tre romanzi molto diversi tra loro ma accomunati dal tema della fascinazione e dell'amore per il cinema, per le citazioni, per il genere giallo e per la città di Torino, nonché dal fatto di essere nati tutti e tre come soggetti cinematografici (rifiutati) e di essere scritti con uno stile cinematografico, ricco cioè di elementi e procedimenti espressivi quali il montaggio alternato, le soggettive, le dissolvenze, i primi piani sonori, i dettagli, il ralenti.

Un posto al buio (Biblioteca del Vascello, Roma, 1994; poi Robin edizioni, Roma, 2000) partendo da un quasi insignificante fatto di cronaca torinese (a Torino è veramente esistita una sala cinematografica che, andata distrutta in un incendio, è poi rimasta chiusa e abbandonata per circa dieci anni) affronta il tema della fascinazione della sala cinematografica.

Il romanzo narra infatti di una serie di morti misteriose che poi si scoprirà essere legate ai tentativi di rilevare una storica e ormai fatiscente sala cinematografica nell'ottica di una "blasfema" volontà di nuova destinazione d'uso, volontà che ovviamente provoca la rabbia di un vecchio e cinefilo direttore di sala che comincia ad uccidere ispirandosi agli omicidi di film famosi.

Nato come soggetto cinematografico, Un posto al buio avrebbe dovuto riallacciarsi ai due precedenti film di Farina e completare con essi una specie di trilogia espressionista: se Hanno cambiato faccia è infatti ispirato a Dracula e Baba Yaga è ricco di riferimenti al Golem, Un posto al buio ha il suo modello più o meno scoperto ne Il fantasma dell'Opera. Rielaborato, riscritto e recuperato come romanzo, Un posto al buio incrocia però ora le atmosfere noir de Il fantasma dell'Opera con quelle giallo-rosa de La donna della domenica e si presenta dunque sostanzialmente come una commedia gialla che sposa i meccanismi del thriller con quelli dell'umorismo anglosassone.

Ambientato negli anni Ottanta, il romanzo riflette i timori del periodo precedente il boom dei multiplex e delle multisale, quando l'inarrestabile flessione degli spettatori e la continua chiusura di sale aveva fatto quasi presagire la sparizione o quanto meno l'estrema rarefazione delle sale stesse ed è quindi anche una specie di elegia sul fascino della fruizione in sala: il rito delle luci che si abbassano, il silenzio che precede l'inizio della proiezione, il raccoglimento in cui progressivamente gli spettatori sprofondano concentrati sulla luminosità dello schermo e sovrastati dalle dimensioni delle immagini e dei suoni diventano così oggetto di celebrazione in un'epoca che sembrava voler affidare alla TV non tanto il compito di trasmettere la cultura cinematografica quanto quello di svuotarla di qualsiasi significato, annegandola in un'inflazione di immagini di ogni tipo. Alcuni personaggi del romanzo, infatti, lavorano in una TV privata, e tangenzialmente il romanzo indulge anche nella riflessione sul fenomeno delle televisioni commerciali: il confronto tra i moderni spot pubblicitari e i caroselli del passato, l'annosa questione delle interruzioni pubblicitarie dei film in TV, la possibilità di utilizzare le reti televisive come giganteschi cineforum di massa, il timore che il moltiplicarsi dell'offerta filmica ne sancisca anche la banalizzazione concorrono a formare un quadro abbastanza critico e venato da una profonda nostalgia.

Nostalgia che, sporadicamente, affiora anche quando si accenna all'epoca in cui Torino era un fiorente centro produttivo con importanti teatri di posa oggi riciclati come capannoni industriali o commerciali.

Il tema della nostalgia e il ricordo di Torino come piccola capitale del cinema costituiscono il filo conduttore anche degli altri due romanzi di Farina.

Giallo antico (Fògola, Torino, 1999) affronta il tema della fascinazione del cinema delle origini e dei pionieri.

Le affinità tra Cabiria e Intolerance, da sempre notate da tutti gli studiosi di cinema, sono il punto di partenza di una trama complicata e avvincente che individua in un infedele e immaginario collaboratore di Pastrone, Alfonso Dematteis, disposto a cedere per risentimenti personali una copia di Cabiria a Griffith, l'anello di congiunzione tra i due registi; trama che poi ipotizza addirittura una collaborazione di Salgari, amico e vicino di casa di Dematteis, alla sceneggiatura del film, che invece com'è noto fu firmata da D'Annunzio.

Costruito in modo avvincente e molto cinematografico su un doppio piano temporale che alterna le vicende del presente con quelle del passato (le indagini, se così vogliamo chiamarle, sono condotte da uno studente impegnato in una tesi di cinema su "Pirateria e spionaggio industriale negli anni del cinema muto"), il romanzo affianca a Dematteis, l'unico personaggio di fantasia, tutta una serie di personaggi storici più o meno famosi ed è quindi in prima istanza un'arguta e affettuosa riflessione su Pastrone, l'Itala Film, Salgari e la Torino di inizio secolo: le difficoltà economiche, le frustrazioni e le delusioni dello scrittore si alternano così alle problematiche tecniche, espressive e commerciali del primo affermarsi del cinema a Torino tra spionaggio industriale e andirvieni di tecnici e personale da una casa di produzione a un'altra.

Il tutto nell'ambito di una personale passione non solo per Torino, Salgari e il cinema delle origini ma, più in generale, per la storia e la ricerca storica: tipiche del romanzo sono infatti l'attitudine e la capacità a rendere il passato come qualcosa di vivo, vicino ed esplorabile, attitudine e capacità proprie non solo di una autore cinefilo e bibliofilo, ma evidentemente anche veramente innamorato di reperti archivistici e d'antiquariato.

Le ipotesi espresse, fantastiche ma affascinanti e inquietanti, rispettano sostanzialmente quello che si sa di Pastrone e Salgari, raccontando ciò che non è successo, ma sarebbe potuto succedere, stante almeno ciò che sappiamo dei due autori: Giallo antico è così sostanzialmente un modo per celebrare due autori che tanto hanno dato allo sviluppo dell'immaginario collettivo nel nostro paese, ma anche per riempire un buco nella storia o per riscrivere la storia in modo alternativo, nell'ambito di un divertissement colto ed elegante, oltre che narrativamente avvincente.

Dissolvenza incrociata (Fògola, Torino, 2002), invece, ricalcando, per così dire, le orme di Effetto notte si articola attorno al tema della fascinazione del set cinematografico e alla volontà di svelare le atmosfere, i problemi, le interazioni che si stabiliscono tra le persone che partecipano alla lavorazione di un film e che costituiscono una specie di famiglia allargata.

Ambientato nella Torino degli anni Cinquanta, all'epoca degli stabilimenti FERT, famosi per i film salgariani e di cappa e spada, il romanzo inizia con un incidente mortale che funesta la lavorazione di un film in costume. Una ragazza che assiste alle riprese si insospettisce e pensando che l'incidente che è costato la vita a un attore americano non sia stato casuale inizia a svolgere delle indagini e a frequentare il set, arrivando così non solo a risolvere il giallo ma anche a comprendere i meccanismi produttivi di un film.

La storia non è però solo un pretesto per spiegare e svelare tecniche, trucchi e procedimenti cinematografici, ma anche per riflettere sull'artificiosità e sulla mistificazione, cardini del lavoro produttivo, che una volta conosciute impediscono però una partecipazione emotiva allo spettacolo; e soprattutto costituisce un'occasione per tratteggiare un ritratto nostalgico e affettuoso della Torino, non solo cinematografica, degli anni Cinquanta, con gli stabilimenti FERT invasi da attori americani e scenografie esotiche, ma anche con i primi immigrati e le ultime lavandaie.

Oltre a sfiorare alcune tematiche sociali, però, indirettamente il romanzo svolge anche una riflessione sui generi, e sul giallo in particolare, importante innanzitutto perché nella letteratura e nel cinema contemporaneo spesso pretesto per discorsi e riflessioni di ogni tipo; e poi soprattutto perché forza trainante da un punto di vista meramente economico di tutto il settore produttivo. Forza trainante che, per l'appunto, negli anni Cinquanta nel cinema italiano era rappresentata proprio da film come quello più volte citato nel romanzo, Il figlio di Scaramouche, e che oggi non esiste più.

Per il generale impoverimento non solo del cinema ma di tutta la cultura italiana.

(Giovanni Marchesi, La letteratura italiana e il cinema - 100 anni di racconti, romanzi e poesie di argomento e/o ambientazione cinematografica, CUEM, Milano 2009)

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