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INTERVISTE - LORENZA MAZZETTI

L'incontro con Lorenza Mazzetti (testimone adolescente di uno dei molti crimini delle SS in Italia, regista giovanissima di alcuni film sperimentali, firmataria dell'atto di nascita del free cinema inglese e vincitrice del Premio Viareggio con il romanzo Il cielo cade) avviene nel 2009 sul terrazzo della sua casa in Trastevere, in una di quelle dolci giornate che ti riconciliano con Roma. Il registratorino cattura fedelmente il suo modo affascinante di parlare, fatto di esitazioni, di scarti improvvisi, di pudori e di autoironie, che la parola scritta restituisce solo in parte ma che ho preferito trascrivere nel modo più letterale possibile per non ucciderne la vitalità ed il ritmo, che sono quelli di una bambina entusiasta anche se Lorenza, all'epoca, ha ormai passato la soglia degli ottant'anni.



Ma quando hai deciso di scrivere ("Il cielo cade", e poi gli altri suoi libri) era dopo Londra...?

Dopo Londra, sì, perché sono tornata in Italia e mi sono sentita male. Io speravo inconsciamente di dimenticare quello che avevo visto...

Tu eri andata a Londra per studiare Belle Arti?

Io ero andata a Londra per dimenticare.

Sì', però se avevi come insegnanti Sutherland, Bacon eccetera... studiavi arti figurative, penso...

Sì, sono andata là (alla Slade School of Art) perché non volevo più fare la cameriera, perché non avevo soldi, allora facevo la cameriera, ma volevo fare anche qualche altra cosa oltre che pulire tazzine e piattini... Allora mi sono presentata là e ho chiesto se per favore potevo entrare in questa università così importante... Dice: no, guardi, bisogna fare degli esami, bisogna sapere bene l'inglese, bisogna presentarsi almeno un anno prima, prenotarsi, riempire moduli, dare esami... Allora io dico: senta, no, guardi, io vorrei parlare con il direttore perché io so che gli inglesi non sono come gli italiani, mi dispiace, si può parlare con il direttore?, vorrei parlare con il direttore. Guardi, non è possibile parlare con il direttore, la preghiamo di andarsene... Dico: io non me ne vado, voglio parlare con il direttore. Senta, le abbiamo già detto di andarsene. E io non me ne vado, voglio parlare con il direttore, so che in Inghilterra si può parlare con il direttore, non è come in Italia che non si può fare. Ho incominciato a urlare ed è uscito fuori un signore in maniche di camicia, sai con quelle maniche nere che hanno gli scrivani, con le bretelle... quindi doveva essere uno scrivano o qualchecosa del genere. Dice: Che succede, che succede? Dice, questa signorina non se ne vuole andare, le stiamo dicendo che non può entrare, che non può venire, domani incomincia l'università e lei non può entrare...

Quanti anni avevi?

Diciotto...

Eri tosta...

Ero disperata, ero proprio pazza. Allora lui dice: No, che non può entrare, vuole parlare con il direttore? Sì, voglio parlare con il direttore, voglio fargli vedere questi disegni (io facevo degli scarabocchi). Allora va bene, mi segua... e mi porta in una sala dove c'era un grande tavolo, mi fa mettere i disegni sul tavolo, dice: mi faccia vedere. Io gli faccio vedere questi disegni, lui dice: interessanti... bene, lei da domani è nostra alunna. Adesso le porto un modulo, lei mi firmi qui... Ma scusi mi faccia parlare con il direttore... Dice: sono io il direttore; lei domani mattina alle nove e mezzo inizia l'Università, l'aspetto: alle nove e mezzo in punto... Io arrivo un po' in ritardo, lui è in cima allo scalone che mi guarda, io lo vedo, sono in ritardo, casco con tutta la roba per le scale... Questo è stato il mio ingresso, con lui che raccoglieva tutti i pezzettini... naturalmente, mi innamoro subito di lui.

Lì ci sono tutti questi professori, queste lezioni, queste panchine, vedo tutti personaggi straordinari, giovani straordinari, donne straordinarie, un ambiente straordinario, se vuoi giocare a tennis c'è il tennis, e poi ping pong club, swimming club, cricket club, film club... Apro e vedo una macchina da presa, le luci, tutto lo stock, dico: e questo cos'è? Questo serve all'Università per riprendere le scene di laurea... Io avevo già la fissazione, del cinema, mi ero già nutrita di Les enfants du Paradis eccetera. A Firenze c'era un bellissimo cineclub... Beh, quando ho visto queste cose ho preso tutto e l'ho portato non dico a casa perché non avevo una casa, ma avevo una stanza a pagamento in un posto molto carino, vicino a Portobello Road. Mi sono portata via questa roba e poi ho detto ai giovani che stavano là: fareste un film con me? Dicono: ma che dobbiamo fare? Mi serve la sorella di Gregorio Samsa, una bella ragazza. Sì, perché avevo in mente La metamorfosi. In quel momento stavo così male che l'unica persona che mi era vicina era Kafka e la sua Metamorfosi. Io mi sentivo proprio come uno scarafaggio, che gli altri mi guardavano come uno scarafaggio e io guardavo gli atri come uno scarafaggio, mi sentivo come un outsider totale. Era una forma di identificazione molto forte, di innamoramento di questo viso straordinario di Kafka che guardava il mondo con questo sbalordimento, un totale sbigottimento davanti al mondo. Io ero sbigottita. Oltre alla sorella di Gregorio Samsa mi servivano la madre, il padrone della ditta, il padre, e degli ospiti. Allora, avevo trovato quasi tutti, perché poi dovevo fare tutto in pochi giorni. Avevo trovato un egiziano che sapeva usare la macchina da presa, poi avevo trovato un attore straordinario che era un pittore, un giovane pittore. Dico: senti, tu mi devi fare Gregorio Samsa. E chi è, cos'è? Uno che si sveglia e pensa di avere mille piedini... Ma come faccio, qua, là... Non lo so, devi essere solo sbigottito, tutto qui, e fare poi quello che ti dico io. Poi avevo scritto a Max Brod se mi dava i dritti, ha detto di no, che non li dava a nessuno. Allora io naturalmente ho fatto il film: ma l'ho fatto proprio come lo voleva Kafka. Perché poi, dopo, ho letto che Kafka aveva proibito assolutamente di pubblicare la Metamorfosi con una copertina illustrata con un scarafaggio. Non voleva dire che non si doveva fare: non voleva assolutamente nessuna immagine. Allora, io ho messo questo ragazzo con una specie di camicia da notte, con questo viso straordinario che tenta invano di scendere dal letto. Praticamene ho fatto due, tre o quattro volte la scena della porta che si apre, del cibo messo per terra, della sorella che porta questo cibo. Poi ho trovato per strada un signore con bombetta, l'ho fermato gli ho detto se per favore poteva fare una parte in un film, un giorno, se veniva. Sì, sì, vengo, vengo, vengo. E' venuto. E io gli dicevo: lei deve solo bussare a una porta e avere l'aria molto scocciata. E lui è venuto a fare questa parte. E poi in un altro posto dove lui vendeva delle pelli, io ho detto possiamo venire?, giriamo una scena in cui lei ascolta che lui parla. E ho preso il monologo di Kafka, dove dice: "Vedrà che io tornerò a lavorare, sarò bravissimo, non si preoccupi, sto male ma io tornerò", tutte le parole di Kafka. Poi a un certo punto sono entrata in una casa e ho detto se potevo girare nel loro salotto. Mi hanno detto di sì. Ho portato un giovane con la barba che faceva l'ospite, una ragazza che doveva suonare il violino, e poi ho chiesto a un professore dell'università se poteva fare il padre, il professor Claude Rogers. Mi ha detto di sì, ed è venuto lui con questa barba. E gli ho detto: deve solo tirare delle mele... C'era tutto questo... Che poi non avevamo il sonoro, facevamo tutto mimetizzato, c'era lei che suonava il violino, lui che parlava con gli ospiti, la madre che serviva il caffè, e poi sul tappeto io ho fatto avanzare Michael, Gregory Samsa, si vedono solo le mani che avanzano su questo tappeto, mentre il violino suona. Si avanzano queste mani, e a un certo punto poi si voltano e vedono lui e questo padre che si alza e tira queste mele, e questo ragazzo che retrocede e queste mani che vanno più indietro... E' molto impressionante... Questa è la fine.

Quanto dura?

50 minuti.

Muto?

No, sonoro. C'è solo il monologo preso da Kafka; non racconta la storia, dice che lui domani starà bene, che lui adesso non scende, però riesce a stare, domani starà benissimo, sarà bravissimo, sarà buonissimo, sarà... capito? Sono tutte parole di Kafka. E' intitolato Kappa. Poi ho chiesto a un mio amico, Daniele Pàris che avevo conosciuto a Firenze, un compositore, se mi mandava un sonoro, da appicicarci, e mi ha mandato una colonna sonora, e l'ho appicicata lì. Intanto il nostro tutore aveva detto che non avevamo più soldi, eravamo sul lastrico, per cui da ricche eravamo diventate povere...

Ma per il film avevi comperato tu la pellicola?

La pellicola l'ho rubata all'Università. Lo sviluppo e stampa non li ho pagati ma ho firmato "University College", perché era uno "Sviluppo e stampa" appiccicato all'Università, quindi erano abituati: sono andata, senta, mi manda l'Università, io non parlavo molto bene inglese... Stampa, stampa del sonoro, l'unione delle due cose, tutto quanto fatto, occupata com'ero a montarlo non ho pensato che a un certo punto sarebbero arrivati i conti all'Università. Lui (il direttore) non mi ha chiamato, non sapeva chi era questo qui, dice: noi non abbiamo fatto nessuna cosa, non abbiamo fatto niente, non siamo noi. Eppure, dice, University College, tutti questi University College li avete mandati voi. Noi non abbiamo mandato niente. Eh sì, allora, ma chi è venuto? Mah, a young girl, florentine girl... Ahhh, dice lui, il direttore, this is Lorenza! Mi manda a chiamare. Lorenza!!! E' lei, sei tu che hai fatto questo casino? Dico: sì. Ah, ma lei lo sa che se non paga va in prigione? A Londra si va in prigione per queste cose. Ho detto: lo so. Allora, paga o non paga? Io non ho una lira. Mi spiace tanto, dice, dovremo mandarla in prigione... Io ero già stata in prigione perché non avevo pagato l'underground, mi erano venuti a prendere i poliziotti e mi ero presentata al giudice (sai che il giudice ha la parrucca, è abbastanza impressionante) e il poliziotto mi ha detto: Guardi, se lei non vuole andare proprio in prigione lei scoppi a piangere e dica che non lo farà mai più, mi raccomando, non risponda ma qui e là e là, dica solo non lo farò ma più, possibilmente mai... Ah, molte volte lei va nell'underground senza pagare, e poi quando l'abbiamo mandata a chiamare non si è mai presentata. Io ridevo, non sapevo la lingua, non capivo che era questo underground e se volevano proprio me... E allora insomma ho fatto un pianto, non lo farò ma più, non lo farò mai più.

Il direttore dell'Università mi ha detto lei va in prigione e poi prima che uscissi dalla stanza mi ha detto: lo voglio vedere, prima di mandarla in prigione. Dice, guardi, facciamo così, cara Lorenza: se il film è bello e gli studenti applaudono, allora lo produciamo noi, se invece il film è brutto lei va in prigione. Lei è d'accordo? Dico sì. Immaginati come stavo... Quando c'è stata dopo pochi giorni la riunione, la proiezione, nella sala grande dell'Università, l'emiciclo, lì, con tutti gli studenti che sapevano che erano soldi che avevo rubato. Insomma, fatto sta che venne proiettato il film e tutti applaudono. Applaudono, e mi viene incontro questo direttore dell'Università con un bellissimo signore, assomigliava un po' a Kennedy ... Dice guardi Lorenza c'è qui un signore, Dennis Forman, che è a capo del British Film Institute che vuole parlarle. Mi dà la mano, dice: sono felice di aver visto questo film, cosa ne penserebbe di fare un film senza andare in prigione? Mi piacerebbe tanto. Allora venga domani a prendere il tè e mi porti un'idea. Se è buona, allora facciamo il film e lei non dovrà andare in prigione. Io sono andato a prendere il tè, effettivamente era lui lì, un bellissimo signore...

Di cui ti sei innamorata...

Sì, subito: come si fa a non innamorarsi, uno che ti aspetta con il tè e i biscottini, è chiaro. Allora dall'emozione io per passargli il foglio ho rovesciato il tè bollente sulle sue ginocchia. E a questo punto tu che cosa avresti fatto? Mi sono messa a piangere. Ho detto chissà che dolore, oddìo che posso fare? E lui: Don't worry, my leg is wood, I left my leg in Cassino, in Italy. Da impazzire, no?

E poi per il British Institute hai fatto...

... questo film che ha poi rappresentato l'Inghilterra a Cannes, Togheter. E poi cos'è successo? Lì ho conosciuto gli altri, loro stavano facendo il loro primo film in 16, io già facevo il 35, e si sono innamorati tutti di me e del mio film. Lindsay Anderson me l'ha mandato Kennedy, cioè Dennis Forman, per aiutarmi a montare le musiche... Si era innamorato del film, Lindsay Anderson, e anche della musica di Kafka, e ha fatto venire da Roma questo mio amico compositore per fare la musica di Togheter. Ieri leggevo sul giornale che è nato adesso un "premio Daniele Pàris" per la musica, che è lui, quello che ha fondato il Conservatorio a Frosinone. Anche lui è stato un genio...

E da lì è nata la tua amicizia con tutti gli altri...?

Sì, Anderson dice adesso ti presente Tony Richardson, ti presento Karel Reisz, e insomma in quattro abbiamo steso questo manifesto. Ci siamo messi là a fare questo manifesto... Cosa è successo? Loro hanno detto: facciamo questo manifesto e proiettiamo i nostri film insieme al tuo, e invece di fare una proiezione di film facciamo una proiezione col manifesto contro il cinema inglese. Quando siamo andati alla proiezione ci siamo accorti con nostra meraviglia che c'era un chilometro di coda... e insomma praticamente il giorno dopo c'era un articolo sul Sunday Time, Penelope Houston, poi...

Cos'era, il 1959?

Il 1956.

Quindi prima della nouvelle vague...

Certo. Siamo noi che abbiamo trascinato tutti quanti, quelli dei Cahiers. Anche Lindsay Anderson era un critico. Una volta visto il successo di questo movimento ha detto adesso facciamo un altro gruppo di film. prima chiamiamo tutte le avanguardie francesi polacche americane, e così ha fatto conoscere Truffaut... l'anno dopo ha fatto una proiezione delle avanguardie americane, con Lionel Rogozin On the Bovery... poi c'era Polansky coi suoi primi film brevissimi, dalla Polonia, poi c'era Jonas Mekas, Kenneth Anger dall'America, Jean Rouche dalla Francia, Joris Ivens... Poi la cosa interessante è che Tony Richardson a questo punto ha detto bisogna gettare la bomba anche a teatro. E allora ha preso un testo che aveva lì e che non tirava mai fuori, ed era John Osborne. Infatti un mese dopo ha fatto furore: siamo stati noi a fare i primi "arrabbiati". Tony Richardson era un direttore del Royal Court Theater, ma non aveva mai avuto il coraggio di mettere su un testo come quello... Due mesi dopo lo aveva messo su e tutta Londra è andata in visibilio. La rivoluzione praticamente era contro la upper class. Perché erano tutti di Cambridge, questi qui e non sopportavano più questa scissione di una città, di un popolo, tra upper class e lower class. Praticamente hanno cominciato a dare importanza, che so, ai Beatles. Il cinema inglese era ancora in mano agli studios, non c'erano grandi personaggi. C'era lo scrittore Sillitoe, c'era un film di Lindsay con Richard Harris, un giocatore, Sabato sera domenica mattina di Karel Reisz, Albert Finney, i primi eroi operai.

In qualche modo nasceva anche dal neorealismo italiano, questa cosa...

Io ho portato il neorealismo, ma lì ancora non c'era, ancora non si andava per strada a fare i film. Io ho girato le scene dei docks di Londra, ma nessuno aveva mai fotografato questo mondo. Pensa, lungo tutto il fiume c'erano delle gru, per cui arrivavano ancora sulle chiatte le masserizie che venivano tirate su dalle gru e messe dentro queste case, e da queste case poi con dei ponti in altre case e poi non so... Erano come dei magazzini tutti neri di fuliggine e con dei numeri, per cui questi miei due sordomuti lavoravano in questa atmosfera di numeri e di case vuote. Adesso questa zona che io ho filmato e che nessun altro ha filmato a parte me, non c'è più. E quindi, se vedete il film vedete questa atmosfera strana... Adesso questa realtà non esiste più, perché quando sono andata adesso io lì... allora guarda, le cose sono così: i docks che erano neri e con dei numeri adesso sono abitati, sono elegantissimi posti da ricche persone. Non li hanno toccati: identici con tutti i ponti, solo che li hanno imbiancati, ingialliti, gli hanno messo un colore giallino. Poi giù, che c'erano i pub, dove c'erano solo indiani, neri, un guazzabuglio... noi si mangiava lì sempre il pollo al curry e infatti nel film c'è il pub dove si vede tutto questo miscuglio di gente, i miei due sordomuti andavano in questo pub e naturalmente se qualcuno gli parla il suono non c'è... Tutto il film così, con il suono che scappa...

E poi perché sei venuta via?

Tutta colpa del Premio a Cannes, perché dicono, guarda abbiamo scelto il tuo film per rappresentare l'Inghilterra a Cannes, vieni, andiamo a Cannes, ma no, io mi vergogno, tutta sola a Cannes, ero un po' giovane, non volevo, che faccio, da sola non ci vado, Lindsay dice vengo anch'io, andiamo con tutti gli amici, con una macchina aperta, c'era Léon Clore, quello che aveva dato lo studio per fare il sonoro gratuitamente, che aveva questa bella macchina, adiamo in macchina da Londra a Cannes, e lì io ho paura, io mi vergogno... E non incontro Zavattini?, che mi fa: Tu sei Lorenza Mazzetti? Ti devo dire, non dirlo a nessuno, ma è piaciuto molto il tuo film, avrà certamente un Palmarès, se vieni a Roma vieni a trovarmi. E' molto importante perché se non ci fosse stato Zavattini non ci sarebbe Il cielo cade. A questo punto io visto che sono già lì a Cannes dico, ho detto: vado a Firenze da mia sorella. Vado a Firenze da mia sorella gemella che aveva già una bambina e rivedo la casa, rivedo tutto e mi ammalo, perché tutto quello che avevo rimosso è tornato fuori così inaspettato. Non dormo più, non posso vedere un coltello, una forchetta, mi sento trapassare... Allora il marito di mia sorella che era uno junghiano dice: guarda, tu devi andare immediatamente in analisi perché stai male, se continui così a credere che non hai niente... Aveva capito benissimo che c'era qualcosa... Lo psichiatra ha detto: lei non cerchi di dimenticare, non reprima questo ricordo. Perché la fuga dal ricordo, per salvarsi... Il fatto è che ricordando uno ha l'impressione di morire, che si fermi il cuore... Bisogna invece affrontare questa cosa che non si affronta mai, si continua così... a cercare di dimenticare con tutti i mezzi... E così ho scritto Il cielo cade: con questo stile della bambina, grazie a un amico, perché io ho scritto così la prima pagina, poi pensando che non potevo scrivere con quel tono, ho buttato il primo foglio. Per fortuna ero ospite in una casa di contadini di un mio amico che un tempo suonava la chitarra e che era lì e mi dice: sto qui che sto scrivendo un libro per Juillard, vieni qua, scrivi anche te, scriviamo tutti e due. Dunque, prende questo foglio che io ho buttato e dice: ma perché l'hai buttato? Mah... non mi pare il tono giusto... Ma è proprio il tono giusto! Continua a scrivere così, vai e scrivi così! Io lo devo a questo amico francese che mi ha detto che era quello il tono giusto. Allora io figurati non ci ho visto più: una cosa così la so scrivere, una cosa da adulta no. Quando ho finito il libro l'ho mandato a tutti gli editori, me l'hanno tutti restituito dicendo che non interessava alla loro casa, non interessa, ci dispiace. Dopo un anno mi è venuta l'idea di mandarlo a Zavattini. Zavattini mi fa: è un capolavoro! Guarda, non è piaciuto a nessuno, ti devo dire, mi è stato restituito da Bompiani, da Mondadori, da Rizzoli, da tutti. Dice: L'hai mandato a Garzanti? No. Lì c'è il papà di Bernardo, c'è Attilio Bertolucci, adesso glielo dò. Bertolucci ha deciso di pubblicarlo, dice: io pubblico sempre un capolavoro, e l'ha pubblicato. Ha vinto il premio Viareggio... però se io non avessi incontrato Zavattini, non gli avessi mandato il libro... questo libro non sarebbe mai uscito...

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