Lo scrittore --> Lo stupro

INTRODUZIONE

Ciò che segue (articolo, saggio, pamphlet o comunque lo si voglia chiamare) è stato scritto nel 1993 per essere pubblicato tra i "MILLELIRE" di Stampa Alternativa, che al tempo andavano fortissimo. Il progetto non arrivò in porto, ma la data e la destinazione originaria vanno tenute presente, sia perché giustificano un certo piglio tra il faceto e il provocatorio, sia perché nel frattempo alcune cose sono cambiate e alcune considerazioni sono divenute obsolete.
Tanto per dirne una, l'allora incipiente fenomeno del ricupero delle vecchie sale cinematografiche, unito con il diffondersi dei multiplex e delle multisale, ha portato a un'inversione di tendenza e al ritorno al cinema di una certa quota di pubblico, costituito soprattutto da giovani (cosa di cui non possiamo che rallegrarci, anche se la provincia stenta ancora a riprendere quota, mentre nelle grandi città la proliferazione delle sale segue logiche e criteri da Far West). La parte che riguarda il progressivo allontanamento del pubblico andrebbe dunque completamente riscritta: cosa che non mi sembra il caso di fare perché resta comunque una testimonianza di un'epoca in cui il cinema, a un secolo esatto dalla sua nascita, sembrava prossimo alla fine. La stessa testimonianza che si ritrova in "Un posto al buio", il progetto cinematografico di cui ne "Lo stupro" si parla, che non ha ancora trovato la strada dello schermo ma che, riscritto sotto forma di romanzo, è stato pubblicato nel 1994 dall'ormai estinta e mai abbastanza rimpianta Biblioteca del Vascello di Roma.
Se è vero che qualcosa è cambiato, la maggior parte di ciò che ho scritto sei anni fa è (purtroppo) ancora valido oggi. Abbastanza da indurmi a cedere ad alcune istanze, e a mettere a disposizione di tutti queste considerazioni sul rapporto tra cinema e televisione.

Roma, ottobre 1999

LO STUPRO (ovvero: "Il cinema in televisione")

FUORI PROGRAMMA

Se ciò che vi ha spinto a prendere in mano e ad aprire questo libriccino sono state più o meno inconfessate prurigini, permettete che subito vi disilluda e ve ne sconsigli la lettura.
Per soddisfare le prurigini di cui sopra, sono più che sufficienti le nostre edicole, dove gli stupri veri e propri sono ampiamente rappresentati, sia sotto forma di fiction (leggi: pornografia) che sotto forma - ahimé - di documenti di vita vissuta (leggi: qualsiasi giornale quotidiano di cronaca di questo nostro tempo, intessuto di violenza scatenata, oppure di violenza repressa e di improvvisi sbotti di follia).
perché, allora, un titolo così lapidario e brutale? La risposta é onestamente chiarita dal sottotitolo: lo stupro di cui ci occuperemo noi è quello che viene sistematicamente perpetrato dalla Televisione nei confronti del Cinema, e che passa ogni giorno sotto i nostri occhi di telespettatori ignavi. Che non è una violenza carnale per la sola e semplice ragione che il film è fatto di celluloide e non di carne, ma che ha, dello stupro, tutte le altre caratteristiche, come la brutalità, l'arroganza, e lo spregio per il proprio partner.
Ma, dirà forse qualcuno, perché proprio di questo ci si deve occupare? Non esistono, nel tempo in cui viviamo, ben altre forme di violenza, sia carnale che metaforica, contro cui sia più meritevole cercare di suscitare l'indignazione e il raccapriccio?
Certamente sì, esistono, purtroppo, eccome. Ma due sono le ragioni che mi dissuadono, in questa sede, dall'occuparmi di esse. La prima è che non mi è mai piaciuto parlare di problemi che non conosco in prima persona: a chi si occupa di cose più serie, purchè lo faccia con onestà, con competenza e con passione, posso solo consegnare la mia gratitudine ed il mio consenso di essere umano e di cittadino, ma non posso aiutarlo concretamente, almeno fino a che il caso (o la mia volontà) non mi mettono in grado di acquisire a mia volta, su quell'argomento, la competenza che ha lui. Mentre dell'argomento di cui intendo parlarvi ho una conoscenza diretta, che mi viene dalle mie varie e successive reincarnazioni, come accanito frequentatore di sale cinematografiche (prima adolescente e poi adulto), e poi via via come critico cinematografico, come sceneggiatore e come regista.
La seconda ragione, che poi è parzialmente connessa con la prima, è che, da qualche tempo a questa parte, le voci di condanna e di dissenso su forme di violenza ben più gravi e importanti si vanno moltiplicando, sia come quantità che come autorevolezza (e questo, al di là del fatto che la cosa serva a qualcosa oppure no, è sicuramente una cosa molto positiva, ancorchè tardiva). Mentre, dell'argomento di cui intendo parlarvi, nessuno si è finora occupato in modo serio.
Come mai?
Non credo proprio che sia perché l'argomento è troppo frivolo, considerando che il tempo e la società in cui viviamo hanno fatto della frivolezza proprio una delle loro bandiere.
Credo che sia, piuttosto, perché pochissime persone si rendono conto dell'esistenza del problema.
Voi dite che non è vero? Mah. Non so quale sia la vostra personale esperienza, ma a me, per esempio, capita sempre più spesso, dopo aver parlato di questo o quel recentissimo film con qualche amico o conoscente, di scoprire che il mio interlocutore, quel film, lo ha visto a casa sua, su una videocassetta, anzichè in una sala cinematografica.
Di solito, a questo punto, il dialogo amichevole degenera rapidamente: poichè, se esprimo delle riserve sulla opportunità di fruire di un film in quel modo, oppure avanzo dei dubbi sulla possibilità di fornire un giudizio equilibrato su un film visto in quel modo, mi vedo guardato come se fossi una via di mezzo fra un marziano, un imbecille e un sovversivo. E negli occhi del mio interlocutore, al di là della curiosità (per il marziano), del compatimento (per l'imbecille) e della diffidenza (per il sovversivo), scorgo sempre e comunque una incomprensione così profonda e totale da escludere ogni sospetto di simulazione e da approdare all'innocenza.
Come è innocente, di solito, la domanda che arriva subito dopo : "Ma in fondo, che differenza c'è?".
Ora, vedere un film al cinema, o vedere lo stesso film su uno schermo televisivo sono due cose assolutamente, irrimediabilmente e totalmente diverse. E il fatto che tante persone, peraltro anche degne di stima, non si rendano conto di questa differenza, testimonia solo del grado di disinformazione e di ottundimento a cui il nostro tempo pantofolaio e superficiale ha ridotto la sensibilità estetica e culturale della maggior parte di noi.
E allora un problema che forse, sì, di per sè è abbastanza frivolo (e che lo diventa del tutto se viene messo a confronto con altri problemi più grossi di lui), acquista maggior peso e spessore, poichè va a toccare una serie di argomenti che frivoli non sono, come il patrimonio culturale (cinematografico e non), il rispetto del diritto d'autore e la formazione del gusto delle nuove generazioni.
Ed eccoci qui, allora, per cercare di risalire insieme la china, e di recare un minuscolo contributo a una presa di coscienza. Che è la premessa fondamentale da cui bisogna muovere, se si vuole cambiare qualchecosa.
Se, dopo aver letto le pagine che seguono, deciderete che esse contengono solo bùbbole, sarete sempre liberi di pensare che queste note le ha scritte un marziano, un imbecille o un sovversivo. Ma se per caso troverete riscontri a vostri già esistenti modi di pensare, o semplicemente vi sembrerà giusto quanto leggerete, allora questo libriccino potrà diventare un "manuale di sopravvivenza" del "telespettatore - che - ama - il cinema". E chissà che non riesca a far sì che qualchevolta lo stupro diventi, se non proprio un idillio, almeno una forma di reciproca convivenza.


PRIMO TEMPO - LA SALA E IL SALOTTO

LA SALA.

Un inedito itinerario alternativo ai più noti percorsi turistici, nelle nostre maggiori città ma anche nelle cittadine e nei paesi della nostra provincia, potrebbe consistere nell'andare alla ricerca delle vecchie sale cinematografiche che hanno chiuso i battenti e sono state trasformate in qualcos'altro.
Siamo dalle parti di quella che si suole comunemente chiamare "archeologia industriale": una branca della scienza urbanistica che si propone di identificare, e se possibile di salvare, dei reperti architettonici sopravvissuti ad un tempo, e ad un modello di società, che non esistono più: strutture di edifici che erano stati studiati e costruiti per ospitare attività commerciali e industriali divenute poi, nel volgere degli anni o dei decenni, antieconomiche e quindi obsolete. Oppure attività sociali che esistono ancora, ma che presuppongono al giorno d'oggi un approccio, sia come mentalità che come concezione spaziale, più moderno.
In questa categoria di edifici rientrano, in pittoresco disordine, filande, mattatoi, fabbriche, manicomi, ospizi, mercati generali, stazioni ferroviarie.
Che cosa si può fare di questo genere di costruzioni quando esse non servono più? Le possibili risposte sono tante, e vanno dal distruggerle, per costruirci al posto qualcosa di nuovo e di più adeguato ai tempi, al recuperarle con pazienza ed amore, studiando il modo di utilizzarle per qualcosa che non ha più nulla a che fare con la loro destinazione originaria. Dell'una e dell'altra soluzione, troviamo degli esempi un po' in tutti i Paesi che appartengono alla cosiddetta civiltà industriale avanzata. Soprattutto i francesi - del cui sciovinismo possiamo dire tutto ciò che vogliamo, ma che non si limitano a parlare come facciamo noi, e hanno il coraggio, nel bene e nel male, di andare avanti - ci hanno dato a Parigi due esempi-limite (uno positivo ed uno negativo) di cosa si possa fare in questi casi: ricuperando la Gare d'Orsay (già stazione ferroviaria, e splendida scenografia di tanti film, oggi trasformata in frequentatissimo Museo e rinata a nuova vita); e radendo invece al suolo Les Halles (il vecchio mercato generale di Parigi, una superba testimonianza di architettura liberty, al posto della quale sorge oggi un opinabile complesso post-moderno).
Ma non divaghiamo, e ritorniamo al cinema. Poichè, fra gli edifici che l'evoluzione dei tempi ha reso obsoleti, ci sono anche purtroppo, in larghissima parte, le sale cinematografiche.
Non ci si faccia ingannare dalle recenti ristrutturazioni di molti cinema, e dall'apertura delle cosiddette multisale. Esse sono solo la piccola "voce" positiva (su cui eventualmente torneremo più avanti) di un bilancio assolutamente catastrofico. Poichè chiunque abbia passato i quarant'anni, possegga una buona memoria, e abbia deciso di intraprendere un pellegrinaggio sentimentale alla ricerca delle sale cinematografiche in cui ha passato la sua adolescenza, sa perfettamente che, delle sale che esistevano non più di trent'anni fa, ne saranno rimaste poco più del 10%. Le altre sono diventate autorimesse, negozi, supermarket, Centri Direzionali, Banche, ed altri templi del terziario avanzato: seguendo un itinerario storico inverso a quello che si era verificato all'inizio del secolo, quando il cinema era letteralmente esploso, andando a occupare spazi alieni, nei baracconi delle fiere, nei teatri, nei garages, nei caffè, prima che si cominciassero a costruire dei locali appositamente per lui.
(Incidentalmente, su questo come su altri argomenti che sono tangenti al nostro, e su cui noi non possiamo dilungarci, vorrei rinviarvi ad un libro di Gian Piero Brunetta, intitolato "Buio in sala", edito da Marsilio per conto della Titanus. Libro che, a testimonianza del disinteresse del grosso pubblico per questo genere di cose, potrete trovare ormai, con un po' di buona volonta, solo sugli scaffali dei Remainder's).
Come tutti i pellegrinaggi alla ricerca del tempo perduto, anche quello che riguarda le vecchie sale cinematografiche ha un che di mortuario e di tombale. E, con chi parla la nostra stessa lingua, non è raro che, passando in macchina in qualche angolo cittadino, ci si indichi un edificio e si dica: "Guarda... un altro cadavere di cinema!...".
Le tracce della destinazione originaria, di solito, vanno ricercate in piccoli segni dilavati dal tempo, e che sfuggono quasi sempre ad un'occhiata frettolosa. Talvolta la sporcizia accumulata dietro alle giravolte di una vecchia ed ormai scomparsa insegna al neon, che consente ancora di leggere sul muro retrostante, "in negativo", il nome del locale o la scritta "CINEMA". Talaltra una pensilina liberty od un arco di ingresso neo-barocco, che magari proteggono l'ingresso di un negozio di mobili moderni e che, se uno ci riflette un momento, non c'entrano proprio per niente con il tipo di locale a cui oggi consentono l'accesso. O ancora una porta slabbrata, in cima ad una scaletta esterna, con una targa di latta arrugginita su cui, con un po' di buona volontà, si può ancora leggere la scritta "In questo locale si proiettano solo pellicole non infiammabili".
Questo panorama da dopo-bomba, che ricorda certi film di John Carpenter o di George Miller, come "Anno 1997 fuga da New York" o i vari "Mad Max", (nonchè i loro epigoni, e le imitazioni caserecce del nostro Enzo G. Castellari, non a caso girate di solito in vecchie fabbriche abbandonate in disfacimento, ed in altri luoghi che appartengono proprio all'archeologia industriale), testimonia di un tempo che non è neanche tanto remoto, e che pure sembra distare anni-luce dal nostro: un tempo in cui la sala cinematografica era una cosa affatto diversa da quella che è oggi.
Lo so, è difficile identificarsi con una realtà che non si è vissuta, e che si conosce solo per averne letto o sentito dire. Non molto tempo fa spiegavo ad un signore, più che ottuagenario, che una volta i film erano muti, ed accompagnati da una musica suonata al pianoforte nella sala dei cinema. Egli mi guardava con un sorriso bonario, facendo segno di sì con la testa. Ed io mi sentii un perfetto cretino quando mi resi conto che gli stavo parlando di una realtà che per me rientrava in quella zona che si trova al confine fra storia e leggenda, ma che lui aveva fatto in tempo a vivere in prima persona.
Allo stesso modo, a causa del vorticoso evolversi delle tecnologie di comunicazione, chi di anni ne ha meno di quaranta o cinquanta, farà fatica ad immaginare non solo il mondo del cinema muto (e cioè quello che precede il 1930), ma anche quello che va dal 1930 al 1950.
Beh, cercherò di spiegarglielo. Era un mondo in cui non solo non esistevano i computer, i videoregistratori e le videocassette, ma non esisteva neppure la televisione. Di conseguenza, i suoni e le immagini entravano nelle case con ordine, passando ognuno attraverso i propri canali: la radio e il grammofono da una parte, i libri e i giornali dall'altra.
C'era chi si accontentava, e gli andava bene così. Erano, per lo più, le generazioni di chi ci era cresciuto dentro, la generazione dei nostri padri e quella dei nostri nonni. Ma la nostra generazione, quella che era nata tra il 1930 e il 1940, non si accontentava per niente, e voleva la magia dell'immersione totale nell'immagine e nel suono. E allora doveva uscire ed andare a cercarsela. Al cinema, naturalmente. Sconfiggendo la pigrizia. Affrontando il caldo ed il freddo. Pagandosi un biglietto. In altre parole, guadagnandosela. Certo, al di là della sala cinematografica, esistevano altri luoghi, come i teatri, i cabaret, le sale di concerto: ma il cinema rappresentava di gran lunga, se non l'unica forma di spettacolo, certamente la più economica, la più diffusa e la più popolare.
Ma che dico, spettacolo? Il cinema era molto di più che uno spettacolo. Era una pietra filosofale capace di trasformare in oro tutto ciò che toccava, una lampada di Aladino in grado di esaudire qualsiasi desiderio. Andare al cinema non significava solo uscire dalla propria casa ma uscire dal proprio mondo; voleva dire acquistare un biglietto che permetteva di entrare in una dimensione parallela, in cui tutto poteva succedere: battersi con gli uomini più coraggiosi del mondo, amoreggiare con le donne più belle, vedere posti che non si potevano vedere in nessun altro modo.
Era, tutto sommato, una forma di evasione a buon mercato, molto più facile da progettare e da realizzare delle evasioni di oggi (che devono vedersela con prigioni più subdole e più difficili da abbattere). Al cinema ci si estraniava, ci si "divertiva" (nel senso etimologico del termine) molto più di quanto non ci si "diverta" adesso. perché quella che abbiamo chiamato "immersione totale nell' immagine e nel suono" avveniva saltuariamente, e quindi la si apprezzava molto di più di quanto non la si possa apprezzare oggi, che ci si vive dentro a bagnomaria.
Non è necessario essere degli economisti o dei sessuologhi per sapere che l'eccesso dell'offerta produce un calo della domanda, e che la sazietà fa crollare il desiderio. Se oggi che non ci interessa quasi più niente, è perché, volenti o nolenti, siamo stati ormai rimpinzati di tutto, di avventura, di viaggi, di amore, di odio e di fantasia, come polli di batteria allevati per diventare sempre più grassi e per continuare a comperare razioni di becchime sempre maggiori.
Tanto per dirne una, credo siano ben pochi coloro che vengono turbati dalle esplicite e patinatissime scene erotiche di "Basic Istinct" o de "Il danno". Ma una volta, per sentirsi turbati, era sufficiente intravedere per pochi fotogrammi il seno nudo di Clara Calamai ne "La cena delle beffe", o quello di Martine Carol in "Caroline Chérie". Anzi, non era necessario neppure quello: era sufficiente che Rita Hayworth si sfilasse un guanto, o che Marilyn Monroe facesse qualche passo, allontanandosi di spalle in direzione delle cascate del Niagara. (Parlo - e me ne scuso con le donne - da un punto di vista strettamente maschile. Ma è sufficiente evocare i nomi di Humprey Bogart, di Clark Gable e di Marlon Brando per rovesciare il discorso, e rileggerlo in un'ottica femminile).
O ancora: oggi, qualsiasi impiegata di un'agenzia di viaggi vi parla con disinvoltura, e probabilmente con cognizione di causa, di Macao, di Casablanca e di Shangai; e vi squaderna sul banco dei dépliants pieni di fotocolor, che banalizzano qualsiasi posto, togliendogli ogni mistero. Una volta, dopo aver visto "Casablanca", "La signora di Shanghai", o "L'avventuriero di Macao", questi medesimi nomi bisognava andarseli a cercare col batticuore sul mappamondo o sull'atlante, come se fossero nomi mitici che esistevano solo nella fantasia; e il cinema era l'unico mezzo per arrivarci, e tale era la sua forza di suggestione che non importava affatto che il porto di Macao fosse ricostruito all'interno di un teatro di posa o che la Muraglia Cinese fosse un modellino su un fondale dipinto.
Cos'è che dava al cinema questa forza fascinatrice e straniante? In parte ciò che abbiamo già detto, e cioè che andarci fosse il frutto di una forte spinta interiore, e che richiedesse un preciso atto di volontà. Ma questo non era tutto.
Il rito era importante, sì, ma il luogo in cui lo si celebrava non lo era di meno. L'oscurità della sala, la mobilità del fascio di luce, la dimensione dello schermo, l'emozione collettiva di centinaia di persone che non si conoscevano fra di loro ma che provavano tutte, simultaneamente, gli stessi sentimenti: erano tutti elementi che contribuivano a creare un autentico campo magnetico, che facilitava e potenziava in modo incredibile quel transfert di cui si parlava prima.
Tutto questo avveniva soprattutto nelle grandi città. Le cose assumevano una connotazione parzialmente diversa nei piccoli centri di provincia di un'Italia ancora per poco rurale: poichè, nei paesi, la sala era sì la cattedrale in cui si celebrava il rito di cui si è parlato, ma era anche uno dei principali luoghi di incontro e di aggregazione, soprattutto per i ragazzini, così come lo erano la tabaccheria ed il bar della piazza per gli adulti e gli anziani. Ed è inutile che mi dilunghi sull'argomento, dal momento che esso è il tema centrale di un film italiano che ha vinto il premio Oscar pochi anni fa, che molti hanno visto, e che molti, spero, hanno amato.
Sto parlando, è chiaro, di "Nuovo Cinema Paradiso", di Giuseppe Tornatore (ma sarebbe forse più giusto citare come coautore anche Franco Cristaldi, che produsse il film e concluse degnamente, con esso, il suo straordinario e quarantennale rapporto d'amore con il miglior cinema italiano). E questo film mi porta ad aprire una parentesi parzialmente autobiografica, che peraltro è strettamente connessa con l'argomento di cui ci stiamo occupando. E che forse, oltretutto, vi permetterà di capire quando sia delicata e molto spesso casuale l'alchimia che porta alla nascita di un'opera cinematografica.
Verso la metà degli anni ottanta, dunque, io scrissi un soggetto cinematografico che si intitolava "Un posto al buio". A Torino erano bruciati due cinema, il Corso e lo Statuto: e soprattutto il rovinoso incendio del secondo, che aveva provocato numerose vittime, aveva, come si suol dire, "fatto notizia", provocando un tardivo giro di vite nei controlli delle misure di sicurezza e accelerando quel processo di scomparsa delle sale cinematografiche che era già in atto da tempo.
La mia storia, invece, aveva come protagonista la sala del cinema Corso, che era una delle più grandi e più eleganti di Torino e che, all'epoca, giaceva abbandonata già da parecchi anni, in attesa che la pallina della roulette politico-immobiliare decidesse della sua sorte (oggi, incidentalmente, è diventato la sede prestigiosissima di una Banca).
Intorno a questa sala abbandonata, guardando da un lato a "Il fantasma dell'Opera" di Gaston Leroux e dall'altro a "La donna della domenica" di Fruttero & Lucentini, costruii una storia che era congegnata come una storia poliziesca, ma che guardava molto più alle atmosfere che al "plot", e che aveva come nucleo emozionale di base la nostalgia per un mondo, quello appunto della sala cinematografica, che andava scomparendo.
La storia piacque, e non poco, a Franco Cristaldi, il quale, proprio in quei giorni, aveva sul tavolo un'altra storia che ruotava, se pure in chiave completamente diversa, intorno a un'altra sala cinematografica: per l'appunto quella del "Nuovo Cinema Paradiso" di Tornatore. L'amore di Cristaldi per il cinema giocò un ruolo determinante? Probabilmente sì. Fatto sta che egli decise di produrre entrambi i film, inserendoli in un "pacchetto" che stava definendo con la Terza Rete della Rai.
Per quanto ne so io, il mio film doveva entrare in produzione per primo, e quello di Tornatore seguirlo pochi mesi dopo. Ma a questo punto successe che Ettore Scola annunciò l'inizio della lavorazione di un terzo film, che si intitolava "Splendor", e che era a sua volta dedicato a una sala cinematografica: per di più in una chiave di "commedia drammatica" che sulla carta sembrava molto più simile a quella del film di Tornatore che a quella del mio.
Cristaldi ebbe verosimilmente paura che "Splendor", uscendo per primo, gli "bruciasse", come si suol dire, "Nuovo Cinema Paradiso". E decise di "partire" immediatamente con questo film, considerando il fatto, oltretutto, che la sceneggiatura di Tornatore era già pronta mentre io stavo ancora scrivendo la mia.
Il resto è abbastanza noto. "Nuovo Cinema Paradiso" venne girato, sforando pesantemente dal budget fissato e appesantendo la situazione economica del suo produttore; poi uscì nelle sale, ed ebbe un'accoglienza di critica e di pubblico assolutamente catastrofica. Cristaldi tentò un salvataggio in extremis, facendone montare a Tornatore una seconda edizione, più corta di circa mezz'ora: operazione che rese il film molto meno compatto e compiuto, e non servì affatto a fargli avere quel successo che meritava (successo che arrivò solo in terza battuta, alcuni mesi più tardi, e fu determinato prima dai consensi e dal premio che il film ottenne al Festival di Cannes, e poi, soprattutto, dall' "effetto Oscar").
Fu a questo punto che Cristaldi cancellò tutti i suoi programmi successivi, dichiarando pubblicamente che non avrebbe più prodotto dei film fino a che non fosse passata la nuova legge sul Cinema (e mantenne, ahimè, la parola). Sicchè la mia sceneggiatura giace ancora nel cassetto, in attesa che il caso decida di fare un'altra smazzata di carte (sempre più improbabile, considerati i tempi che corrono), e di farne uscir fuori un film.
perché vi ho raccontato tutto questo? perché, al di là del valore delle singole opere (personalmente, considero "Nuovo Cinema Paradiso" un film molto bello, e "Splendor" uno dei film più deboli realizzati da un regista che apprezzo e che amo), mi sembra emblematico, ai fini dei discorsi che stiamo facendo, che ci sia stato un momento in cui diversi autori, che probabilmente non si conoscevano neanche fra loro, abbiano sentito il bisogno di parlare della sala cinematografica. (Nello stesso periodo, tra l'altro, vennero girati altri due film che si possono riportare a questo discorso: "Via Paradiso", di Luciano Odorisio, e "Rorret", di Fulvio Wetzl, un singolare thrilling a basso costo, che non uscì mai dal circuito dei Cineclub, e che con "Un posto al buio" aveva più di un punto in comune).
Ci sono dei momenti in cui determinati problemi sono, come si suol dire, nell'aria. E sono certo che tutti noi avevamo colto nell'aria, in quegli anni, la morte (o per lo meno la profonda trasformazione) della sala cinematografica, intesa sia come luogo rituale, che come centro di aggregazione e di divertimento di massa.
Alcuni anni fa si profetizzava che a brevissimo termine le sale cinematografiche sarebbero scomparse del tutto, che sarebbero rimasti solo i Cineclub, e che gli spettatori di cinema si sarebbero trasformati in una conventicola di iniziati, a metà strada fra i carbonari dell'Italia ottocentesca, gli schiavi di "Metropolis", e i "Sotterranei" di Guido Crepax. Oggi sembra abbastanza chiaro che questa profezia era eccessivamente apocalittica: da un po' di tempo in qua, lo abbiamo già detto, si assiste caso mai a una modesta controtendenza, con l'apertura di alcune multisale e la ristrutturazione di un certo numero di locali. Ma si tratta di provvedimenti di emergenza che si sono resi necessari per tentare di frenare in qualche modo l'emorragia degli spettatori; provvedimenti che sono stati realizzati "in extremis", perché il degrado delle sale sopravvissute aveva toccato punte negative assolutamente inaccettabili, e che sono dovuti in gran parte all'intervento nel settore di un imprenditore scaltro e lungimirante come Silvio Berlusconi. (Essi fanno parte, tra l'altro, di un suo abile e minaccioso progetto di "intervento globale" nel settore degli audiovisivi, di cui diremo più avanti).
Ma, al di là di questi tardivi e comunque salutari interventi, resta il fatto che lo spettacolo cinematografico, rispetto ai suoi anni migliori, è entrato in una irreversibile zona d'ombra; e che chi va al cinema, oggi, ci va in un modo molto più disincantato di un tempo.
Le cause di ciò sono probabilmente molteplici, e in un modo o nell'altro ne abbiamo già detto. L'offerta sovrabbondante, da parte della televisione, di una dimensione fantastica "formato famiglia". Quell'ottundimento dell'appetito intellettuale che nasce in coloro che sono troppo pasciuti. La sfaccettatura della vita di oggi, che offre a livello di massa evasioni una volta impensabili (ai giorni nostri, il ragionier Gauguin non accetterebbe mai un faré polinesiano senza aria condizionata, e il geometra Conrad non salirebbe più su una nave se non ci fossero almeno un paio di piscine, e un televisore in ogni cabina). Infine, non dimentichiamolo, la stessa banalizzazione del cinema, che non propone più modelli di evasione per la semplice ragione che li ha già proposti tutti, e che si limita da tempo a rifare se stesso, come già venticinque anni fa giustamente faceva notare Peter Bogdanovich.
Di tutte queste cause, mi interessa soprattutto, in questa sede, approfondire la prima, che tra l'altro è in gran parte responsabile di tutte le altre. Ed è per questo che vi prego di calare il sipario sulla sala cinematografica e di riaprirlo sul vostro salotto.

IL SALOTTO.

La televisione arriva in Italia nella prima metà degli anni cinquanta: ci arriva nascosta nel cavallo di Troia del "modello americano", che noi introduciamo trionfalmente nel nostro Paese dopo aver abbattuto, per farlo passare, una parte delle mura della nostra cultura. All'inizio sembra che sia solo uno dei tanti elettrodomestici che servono a rendere la vita più facile, come il frigorifero, la lavatrice, la lavastoviglie e l'aspirapolvere. Ma in realtà essa si muove in un'ottica che è esattamente all'opposto di quella degli altri elettrodomestici: quelli servono infatti a dilatare lo spazio del tempo libero, mentre la televisione tende a occuparlo.
In un'Italia che ha (comprensibilmente) una gran fretta di scrollarsi di dosso le macerie e il ricordo della guerra, non par vero di poter cominciare a possedere, dopo aver conquistato tutto ciò che è voluttuario ma utile (perché consente di ridurre il lavoro e la fatica), qualcosa che sia voluttuario e basta.
Da questo punto di vista, la televisione è particolarmente seducente, poichè consente di avere in casa propria una cosa che cinema non è, ma che, insomma, in qualche modo gli assomiglia. Certo, lo schermo è piccolino, il mobile è brutto e ingombrante, le immagini sono in bianco e nero. Ma resta pur sempre il fatto che si tratta di immagini che si muovono e parlano, e che oltretutto, una volta alla settimana (eccolo lì, il piccolo tarlo che incomincia a rosicchiare!) ci permette di vedere un film a casa nostra, senza muoverci dalla nostra amata poltrona e senza uscire dalle nostre confortevoli pantofole.
Il cinema? Ma certo, al cinema ci si continua ad andare, che c'entra, non è mica la stessa cosa. Però magari ci andiamo domani, questa sera è mercoledì, e per l'appunto in televisione c'è quel vecchio film che mi ricordo di aver visto anni fa. Al cinema ci andiamo domani, non cambia niente, ti va?
Cri cri, cri cri. Il piccolo tarlo rosicchia, e cercheremo più avanti di riassumerne il devastante percorso. Quello che ci interessa, per ora, è di constatare che il nostro apparecchio televisivo, la nostra poltrona e le nostre pantofole sono diventati pian piano una trappola più insidiosa e tenace delle sabbie mobili. Così insidiosa e tenace da riuscire, nell'arco di trenta-quarant'anni, a modificare completamente le nostre abitudini, e la cultura stessa della società in cui viviamo.
Per rendercene conto, proviamo a fare un piccolo sondaggio nelle case dei nostri amici; (o forse, se siamo dotati di spirito sufficientemente autocritico, è sufficiente che osserviamo la casa in cui viviamo noi stessi).
A parte alcuni tenaci sovversivi, che non hanno l'apparecchio televisivo o che lo hanno relegato negli angoli più scomodi e remoti della casa (ma quanti sono, questi sovversivi, e che cosa si aspetta a spazzarli via? Dov'è, e cosa aspetta, la polizia del Grande Fratello?), la maggior parte delle famiglie italiane tiene la televisione nel luogo in cui passa la maggior parte delle ore del giorno: la cucina; la camera da letto; e soprattutto, naturalmente, il salotto (non quello buono, di rappresentanza, ma quello di uso comune, che una volta, nell'Italietta piccolo-borghese, si chiamava "il tinello").
Tutto questo, a dire il vero, valeva fino a pochi anni fa. perché ormai, in ogni casa, di apparecchi televisivi ce ne sono più di uno: molto spesso, se le condizioni economiche della famiglia lo consentono, essi si trovano in tutti i posti che ho menzionato, oltre che, naturalmente nella camera dei ragazzi, "perché così quando loro vogliono vedersi la TV non vengono a rompere le scatole in giro per casa".
Ora, questa proliferazione di apparecchi televisivi, puntualmente annunciata fin dagli anni cinquanta (e basti fra tutti ricordare lo straordinario "Gli anni della fenice" di Ray Bradbury, meglio conosciuto come "Fahrenheit 451") ha tutta l'aria di una occupazione "manu militari" del nostro territorio domestico.
E mica solo di quello. E' in gioco qualcosa di molto più delicato e più importante: il nostro territorio mentale.
Se nel corso dei vostri sondaggi qualcuno vi dice "Ma tanto non lo accendo quasi mai", non credetegli: questa è una menzogna, magari detta in buona fede, e che si può fingere di accettare solo per pietà e per affetto. In realtà, poche cose sono più vischiose e prevaricatrici di un apparecchio televisivo. Io, che non amo (nel caso non lo aveste ancora capito) la televisione, me ne rendo conto in prima persona quando sono fuori di casa, e nei pochi metri quadrati della mia stanza d'albergo mi sento come un fantaccino in trincea, con il nemico che gli sta addosso. E mi sorprendo con tragica facilità a saltapicchiare da un canale all'altro, ottusamente, meccanicamente, mentre il libro che volevo leggere giace chiuso sul tavolino da notte, finchè il sonno non riesce a fare giustizia della mia insensatezza.
Le parole che ho scritto, "ottusamente" e "meccanicamente", ci portano al cuore del problema, e al nocciolo di quella profonda differenza che c'è fra lo schermo cinematografico e quello televisivo.
Dunque, ecco qua: quando ci si siede davanti a uno schermo cinematografico si esercita un atto di volontà, e ci si trova quindi in quello che gli orientali definirebbero uno stato di "vigile attesa". Al contrario, quando ci si siede davanti a uno schermo televisivo, ci si trova di solito in un atteggiamento mentale passivo, e l'atto stesso di pigiare il tasto del telecomando può essere del tutto casuale e non-cosciente, come può esserlo lo spostare una sedia o il giocherellare con un posacenere.
In questi casi (che sono ovviamente dei casi-limite), l'immagine che si forma sul teleschermo, con la sua relativa colonna sonora, costituisce più che altro un avvicendarsi ritmico di colori e di suoni, che altra funzione non hanno, nè si presume che debbano avere, se non quella di "tener compagnia", se non addirittura di "conciliare il sonno". (Incidentalmente, nasce proprio da questo tipo di "consumo" uno dei meriti più grandi, da un punto di vista sociale, della televisione, che è quello di contribuire in maniera determinante ad alleviare il tedio giornaliero di tanti malati e di tanti anziani).
Anche senza arrivare a questi livelli, comunque, è molto facile che le immagini che passano sul teleschermo vengano recepite con tutti i meccanismi critici e attenzionali abbassati alla loro cosiddetta "soglia minima".
In questo giocano un ruolo importante diversi fattori. Anzitutto, la dimensione dello schermo, che è molto più piccolo dello spettatore, mentre lo schermo cinematografico lo sovrasta e lo domina. (Almeno per il momento. Non siamo ancora arrivati ai televisori "a tutta parete" ipotizzati da Bradbury, ma ci arriveremo più presto di quanto non crediate. Troppi interessi sono in gioco, e ci sono, in diverse parti del mondo, fior fiori di cervelli che stanno lavorando alacremente perché ciò diventi possibile).
Poi, il contesto in cui lo schermo si trova. Una grande stanza completamente buia ha sicuramente un maggiore effetto straniante, nel gioco di eccitamento della fantasia, rispetto alle domestiche pareti di un salotto, di cui si conosce la disposizione di ogni quadro, ogni mobile ed ogni soprammobile, accuratamente predisposta e studiata per dare al padrone di casa il massimo del comfort e del relax.
Infine, l'assenza di una vasta collettività anonima ma solidale (il pubblico della sala), e la presenza ingombrante, al suo posto, della vita quotidiana, che in casa propria è virtualmente impossibile tagliare fuori del tutto dalla sfera della vista e dell'udito; fatalmente, essa interferisce in modo negativo nel rapporto tra lo spettatore e lo schermo, portandosi dietro tutti i suoi problemi ("Ma che cosa sarà quella macchia sul soffitto?") e i suoi rumori (il bambino che piange, il telefono che squilla, l'inquilino del piano di sopra che va al cesso e tira lo sciacquone).
Tutto questo rende estremamente difficoltoso, per non dire impossibile, il crearsi di quel campo magnetico, e del conseguente effetto di straniamento, di cui si diceva prima. Io non sono un tifoso, ma penso che la differenza fra l'esperienza cinematografica e quella televisiva sia molto simile a quella che c'è tra una squadra di calcio che gioca "in casa" ed una che gioca "in trasferta". Se io vado al cinema, sono io che accedo al regno della fantasia, ed è quindi la fantasia che "gioca in casa", con molte più probabilità di vincere, o, se preferite, di riuscire a coinvolgermi. Ma se io mi siedo davanti al televisore, "in casa" (sia logisticamente che metaforicamente) ci gioco io, e la fantasia parte pesantemente svantaggiata, poichè ben difficilmentre riuscirà a superare l' handicap rappresentato da un contesto quotidiano e tranquillizzante che ne costituisce, sostanzialmente, la negazione a priori.
Forse sarà bene chiarire che mi sto riferendo essenzialmente a quei casi in cui lo schermo televisivo viene utilizzato alla stregua di quello cinematografico, vale a dire per vedere un film di fiction a lungometraggio: per un'opera cioè che è stata originariamente concepita e realizzata per un contesto profondamente diverso, e che presuppone, per ritmi, natura e durata, una totale adesione e attenzione al racconto.
E' chiaro infatti che, se si accende la televisione per sentire le previsioni del tempo, o per vedere il telegiornale, od anche per assistere ad un programma di altro genere (che sia un programma di varietà o uno di quegli innumerevoli quiz che mettono a dura prova il quoziente di intelligenza dell'italiano medio), il discorso cambia. Poichè è difficile che il contesto domestico arrivi a inficiare la scarsa attenzione che è necessaria per sentirsi dire da un colonnello dell'Aeronautica che i mari sono agitati e mossi nel canale di Sicilia, o sentirsi confermare dal pippobaudo di turno che Cristoforo Colombo ha scoperto l'America nel 1492.
In altre parole esistono, tra lo schermo televisivo e quello cinematografico, delle profonde differenze che fanno sì che certi spettacoli siano più adatti al primo e certi spettacoli più adatti al secondo.
Sembra quasi ovvio pensare che i primi siano quelli creati appositamente per la televisione, e i secondi quelli creati per la sala cinematografica; e questo indubbiamente è vero, ma non sempre e non in modo assoluto.
Sulle deroghe e sulle zone d'ombra di questa regola lapalissiana, cercheremo di tornare più avanti. Per adesso, limitiamoci a dire che se e fino a che la televisione viene utilizzata per le innumerevoli forme di comunicazione audiovisiva che le sono più congeniali, siano esse giornalistiche (cronache, inchieste, cronache sportive, dibattiti), didattiche (documentari, programmi culturali, film di divulgazione) o finanche spettacolari (telefilm, cortometraggi, film di animazione), essa svolgerà una funzione straordinariamente efficace, e coerente agli scopi per cui è stata creata. Ma che diventa una mina vagante nel momento in cui si impadronisce di altre forme di espressione (concerti, spettacoli teatrali e soprattutto film), presentandoli in maniera più o meno surrettizia non già come quello che sono (il mediocre surrogato, la mediocre fotocopia di un'altra forma di spettacolo) ma come uno spettacolo vero e proprio.
Il risultato sarà che lo spettatore sprovveduto sarà tratto in inganno (o magari, se è anche pigro, sarà cosciente dell'inganno, ma anche ben contento di lasciarcisi trarre), e sarà indotto a scambiare il surrogato per l'originale. E ciò avverrà in misura tanto maggiore per i film, la cui fotocopia televisiva è molto più simile all'originale di quanto non avvenga per un concerto o per una rappresentazione teatrale (nel primo caso l'immagine è pur sempre pressapoco la stessa, mentre negli altri due casi, ovviamente, la differenza è molto più macroscopica, poichè viene a mancare l'elemento determinante e tangibile della presenza fisica degli artisti che suonano o che recitano).
Così, il discorso ritorna al cinema, che si dà il caso costituisca una fetta spropositata delle programmazioni televisive: soprattutto in Italia, la cui percentuale di fiction cinematografica non ha riscontro in nessun'altra televisione della cosiddetta civiltà occidentale.
Vi ricordate del tarlo di cui parlavamo qualche pagina fa? Cri cri, cri cri. Il film settimanale della televisione bernabeiana degli anni cinquanta si è dilatato per partenogenesi, è cresciuto e si è moltiplicato, ispirandosi non solo all'imperativo evangelico ma anche a quell'altro episodio (tratto, mi verrebbe da dire, dallo stesso best-seller) che è la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Ed è diventato i due film settimanali, sempre della stessa televisione bernabeiana, e poi i quattro, i sei e gli otto film della televisone lottizzata degli anni settanta, per arrivare al crollo della diga collegato con l'avvento delle televisioni private, che ha portato il numero di film che passano ogni settimana sugli schermi televisivi di tutta Italia a livelli che è arduo stimare, ma che comunque si può ipotizzare che non siano molto al di sotto di un tondo e terrificante migliaio.
Ricordate il dialoghetto del bravo italiano degli anni cinquanta, quello del cinema rimandato a domani, perché stasera c'è in televisione un film che vale la pena di rivedere? Bene, moltiplicatelo per dieci, per cento, per mille, e traetene voi stessi le conseguenze. Cri cri, cri cri. Quel piccolo tarlo che era entrato nelle nostre case all'inizio degli anni cinquanta ha continuato a lavorare per quarant'anni, giorno e notte, tenace e implacabile: col risultato che il cinema si è trasformato in un fantasma, sempre più sottile, sempre più evanescente. E la meraviglia non deve nascere dal fatto che siano scomparse tante sale cinematografiche, ma caso mai dal fatto che tante altre ne siano sopravissute.
Poichè l'uso dei film in televisione (al di là dei modi in cui viene attuato, su cui resta ancora tutto da dire) è comunque diventato, in Italia, un abuso. E questo fa già parte del discorso sulla violenza, cui è dedicato il "secondo tempo" di questo libretto.


SECONDO TEMPO - LA VIOLENZA

LA VIOLENZA STRISCIANTE.

Nei primissimi giorni del 1993 si è svolto a Bologna un convegno, organizzato da una nuova associazione, denominatasi "Forum per la libertà di comunicazione", che riunisce persone militanti nei più disparati territori della cultura: cinema, televisione, letteratura, musica, giornalismo, arti figurative, eccetera.
Nel corso del convegno si è fatto un gran parlare, fra le altre cose, della situazione asfittica che si è creata nel campo degli audiovisivi, che allo stato attuale delle cose si è ridotto per il settore televisivo ad un duopolio (Rai e Fininvest), e per il settore cinematografico addirittura a un monopolio (l'asse Berlusconi - Cecchi Gori): duopolio e monopolio che, essendo intimamente connessi fra di loro, hanno portato il cinema italiano in un vicolo cieco.
Uno degli aspetti più dibattuti del problema è stato se sia costituzionalmente legittimo che il monopolio si sviluppi anche verticalmente, e cioè che gli stessi gruppi economici possano intervenire in tutti i successivi momenti della vita di un'opera cinematografica, controllando via via la produzione, la distribuzione, l'esercizio, lo sfruttamento televisivo e il mercato dell'home-video (come, di fatto, sta succedendo in Italia). O se invece questa libertà, che apparentemente rientra nel principio del libero mercato, non ne sia invece la negazione, e vada quindi regolamentata per mezzo di leggi anti-trust sul modello di quelle americane.
Ho accennato a questo problema (che non possiamo approfondire in questa sede perché ci porterebbe troppo lontano), per spiegarvi quanto siano strettamente interconnessi i meccanismi del mercato cinematografico e di quello televisivo, nonchè i due momenti successivi della produzione e della distribuzione. Poichè è proprio di qui che è passata, nei decenni trascorsi, la presa di potere del cinema da parte della televisione.
Cominciamo dall'inizio. A tutti gli effetti, quando manda in onda un film, la televisione si pone nella posizione del distributore: e cioè di colui che, tramite un accordo con il proprietario economico del film (il produttore), ne acquista i diritti di sfruttamento, per un limitato periodo di tempo o un limitato numero di passaggi.
La televisione, in questo caso, (e salvo quanto diremo più avanti sui "modi" della messa in onda), non fa nulla di male al cinema, dal momento che presumibilmente quel film è già stato sfruttato, per quanto era possibile, per la sua naturale destinazione, e cioè la sala cinematografica; caso mai, compie un'azione meritoria, poichè consente a quel film di raggiungere un pubblico incredibilmente più vasto di quello che può aver raggiunto nella sua vita normale nelle sale cinematografiche: un pubblico che oltretutto, senza la televisione, non avrebbe mai avuto l'opportunità di conoscerlo.
In questo senso, tra l'altro, la televisione può svolgere, e in parte svolge, una funzione culturale di non poco rilievo, che è quella di diffondere la conoscenza della storia del cinema, prendendo quel posto che una volta apparteneva ai Cineclub (che ancora esistono, ma con connotazioni diverse da quelle che avevano una volta) e ai CUC, o Centri Universitari Cinematografici (per quanto ne so io, smantellati e scomparsi).
Questo compito di divulgazione culturale ha, o dovrebbe avere, una importanza grandissima. Poichè non dobbiamo dimenticare che la storia del cinema è tuttora considerata come una specie di Cenerentola dell'arte, umiliata e offesa da tutto uno stuolo di matrigne e di sorellastre appartenenti a una cultura accademica e sussiegosa, che fa ben attenzione a tenere distinte le arti maggiori (architettura, pittura, scultura) da quelle cosiddette minori (grafica, fumetto, cinema, eccetera): senza aver ancora capito che la storia della cultura è una cosa più complessa, più sfaccettata e più ricca di interconnessioni del "cubo magico" di Rubik, e che in questa ottica una storia di Paperino di Carl Barks o un film di Ingmar Bergman (ma anche uno di Totò) possono avere la stessa importanza che ha la Cappella Sistina.
La cultura ufficiale italiana, invece, sta solo ora cominciando ad accettare l'idea che il cinema sia, oltre che una forma di intrattenimento, una forma di espressione artistica (ora che il cinema sta per compiere cent'anni, e che le celebrazioni per il suo genetliaco rischiano di coincidere con la sua veglia funebre...); e la conseguenza è che abbiamo una ignoranza della storia del cinema - anche fra i ceti più agiati e, come si suol dire con orrenda parola, acculturati - a livelli da terzo mondo.
Un processo di alfabetizzazione in questo senso, avviato fin dagli anni del fascismo con i Cineguf, era poi stato portato avanti, dopo la guerra, per l'appunto dai Cineclub e dai Centri Universitari Cinematografici. Che peraltro facevano quello che potevano, poichè dovevano fare i conti con la reperibilità delle pellicole (molto più scarsa allora di adesso), e con la impossibilità fisiologica di raggiungere il grande pubblico. La televisione, che invece il grande pubblico ce l'ha in pugno (il pubblico più vasto che un cineclub possa mai sognare di avere si può contare in qualche migliaio di persone, mentre un'audience che si rispetti, come è noto, si misura in termini di milioni, se non di decine di milioni), la televisione, dicevo, si trovava (e si trova) in una posizione ideale per realizzare un piano organico di alfabetizzazione cinematografica, soddisfacendo nello stesso tempo la sua cronica ingordigia di pellicole.
Naturalmente, questa operazione andava fatta in un certo modo: impostando un programma a lungo respiro, che permettesse di riassumere in modo organico ed esauriente i vari e successivi capitoli di quell'affascinante romanzo che è la storia del cinema; facendo precedere i film da una introduzione, molto semplice e molto chiara, in cui si spiegasse agli spettatori dove si collocava quel film che stavano per vedere, chi lo aveva fatto, dove, quando e perché; facendoli seguire da un incontro-dibattito, come si faceva appunto nei Cineclub e nei CUC, in cui chiunque potesse intervenire per chiedere spiegazioni o proporre interpretazioni.
Questo lungo paragrafo, purtroppo, ha tutti i verbi al congiuntivo imperfetto, ed è tutto retto da una frase iniziale: "questa operazione andava fatta in un certo modo".
Cosa che non è quasi mai avvenuta. Sia la compassata televisione pubblica degli anni cinquanta che la sbracatissima televisione pubblica e privata degli anni novanta hanno quasi sempre usato i film come carne da macello, sbattendoli al fronte senza criterio, senza spiegazioni, senza dibattiti, senza nessuna preoccupazione che non fosse quella di riempire due ore di palinsesto. E un simile atteggiamento, se è deprecabile ma comprensibile da parte della cosiddetta televisione commerciale, il cui unico imperativo è vendere e far vendere, è addirittura delittuoso nel caso della televisione di Stato, che è un servizio pubblico, con tanto di canone, e che in quanto tale dovrebbe avere ai primi posti, fra i suoi scopi istituzionali, l'innalzamento della soglia di cultura del proprio pubblico.
Mentre scrivo queste righe, sento un rumoreggiare sinistro che proviene dalla parte di Roma in cui si trova viale Mazzini, e non mi ci vuole molto per capire di che cosa si tratta: sono i critici addetti alle programmazioni dei film (gran parte dei quali io conosco ed apprezzo, perlomeno quando scrivono sulla carta stampata) che stanno digrignando i denti e arrotando le lame da affondarmi nella gola. "Ma come?" sento vociferare "Noi non facciamo le presentazioni? Noi non facciamo i cicli? Noi non ci preoccupiamo di elevare il livello culturale del pubblico?".
Ebbene, no, amici miei. O non abbastanza. I vostri cicli di film sono troppo spesso pretestuosi, casuali e scollegati fra loro. Le vostre presentazioni non tengono conto, di solito, dell'enorme differenza che c'è fra la percezione della parola scritta e quella della parola ascoltata, che postula giri di parole molto più semplici, frasi senza fronzoli, concetti addirittura elementari, mentre voi tendete troppo spesso a parlare come scrivete. (Quasi meglio, allora, le meta-presentazioni di Enrico Ghezzi, che arrivano ad un tale livello di conscia e narcisistica inintelligibilità da trasformarsi loro stesse in uno spettacolo, talvolta anche divertente). Troppo spesso, infine, i film più interessanti vengono mandati in onda in orari in cui davanti ai teleschermi vegliano solo più i vampiri, e gli esseri umani dormono. (Certo, per fortuna c'è il videoregistratore: ma chi decide di registrare un film è già uno spettatore "che sa", e allora è abbastanza probabile che quel film se lo sia già procurato, acquistando una videocassetta regolarmente in commercio. Ma ciò non significa forse abbandonare proprio quegli spettatori che "non sanno", e quindi mancare a priori quel compito di divulgazione culturale di cui si diceva poc'anzi?).
Intendiamoci: so perfettamente che la colpa non è solo dei critici. Essi riempiono gli spazi che i palinsesti mettono loro a disposizione, e i direttori di rete non sono certo disposti a rinunciare a qualche milione di spettatori per acculturarne qualche migliaio. Ma questo è solo uno dei molti corollari di un teorema male impostato e peggio risolto, che ha portato la Rai a correre sulla stessa pista della Fininvest: là dove, essendo totalmente diverse le premesse (politiche, istituzionali ed economiche) di partenza, dovevano essere totalmente diversi anche gli obiettivi e le scelte.
So anche di aver fatto affermazioni un po' troppo drastiche, poichè di tentativi, più o meno riusciti, nell'arco di questi quarant'anni ne sono stati fatti. Penso ad esempio a certe postfazioni di Vieri Razzini, che ripresentavano scene del film appena visto, inserite in un contesto di critica e/o spiegazione; o a certi cicli di film in lingua originale con sottotitoli; o a certi film ripresentati in "edizione critica", con reintegrazioni di scene tagliate a suo tempo nell'edizione italiana. Ma queste lodevolissime iniziative (a parte il fatto che alcune di esse andavano molto al di là dell'alfabetizzazione) sono sempre germinate in modo sporadico, e non sono mai state inserite in quel contesto organico e ad ampio respiro che sarebbe stato auspicabile per realizzare una efficace opera di divulgazione della cultura del cinema.
Fino a questo punto, comunque, abbiamo parlato di una televisione che svolge esclusivamente una funzione di distributrice, e alla quale si possono solo imputare colpe di carattere omissivo, senza andare al di là del rimpianto per una bellissima occasione sprecata. (Ma in teoria - molto in teoria - non è mai troppo tardi. Qualcuno, negli uffici della Rai o della Fininvest, mi sente?).
Le cose cambiano nel momento in cui la televisione non si limita ad acquistare il diritto alla messa in onda dei film, ma incomincia a intervenire finanziariamente nella loro produzione: partecipando, per così dire, "in vitro", alla nascita di opere che, si badi bene, non sono destinate al piccolo schermo se non in via subordinata, poichè nascono all'interno delle strutture produttive del cinema e in funzione primaria della sala cinematografica.
Incomincia così (verso l'inizio degli anni settanta) quel sottile processo di avvelenamento che vede modificarsi pian piano i rapporti di forza iniziali, e che porta alla situazione di oggi, in cui di fatto non si realizzano film se non sono prodotti, in tutto od in parte, dalla televisione: in un ribaltamento delle posizioni iniziali (il cinema nel ruolo del padrone, e la televisione in quello del vassallo) che ricorda in modo singolare l'inversione dei ruoli dei due personaggi de "Il servo", una delle più belle sceneggiature di Harold Pinter e uno dei più bei film di Joseph Losey.
Il fatto è che l'immissione di soldi televisivi nella produzione cinematografica italiana non fu affatto, come avveniva nell'antica Roma o nell'Italia del Rinascimento, una manifestazione di mecenatismo disinteressato e puro, ma piuttosto un'operazione che in termini aziendali si potrebbe definire "di rifornimento delle scorte". In altre parole, la televisione incominciò a partecipare alla produzione dei film quando si rese conto che i film già girati si andavano esaurendo, che il cinema incominciava a trovarsi in difficoltà, e che insomma lei stava strozzando la sua gallina delle uova d'oro.
Venne varato allora, più o meno consciamente, una specie di "piano Marshall" del cinema. Ed i soldi televisivi, colando nella linfa vitale da cui trae vita l'opera cinematografica, vi instillarono pian piano un veleno i cui effetti si resero palesi solo a distanza di tempo, quando era ormai troppo tardi per porvi rimedio: e cioè quando esso, entrato in circolo, aveva ormai profondamente trasformato la natura stessa dell'opera cinematografica.
In che modo, l'aveva trasformata? Qui si imporrebbe un discorso sulle differenze di linguaggio fra cinema e televisione, o, se preferite, sullo specifico filmico e lo specifico televisivo. Un argomento intorno a cui ci si accapiglia da decenni, e che tenterò di riassumere in termini estremamente semplici, a rischio di apparire, ai miei amici critici, superficiale e schematico.
Diciamo anzitutto che nella struttura stessa di ogni tipo di racconto è già implicita una sua durata ottimale, al di sopra e al di sotto della quale il risultato, comunque, non potrà che scadere. Difficilmente un atto unico potrà diventare una commedia, o un racconto diventare un romanzo, e altrettanto difficilmente una commedia o un romanzo potranno essere ristretti in un racconto o in un atto unico. Inoltre, ogni tipo di racconto ha delle sue modalità di consumo ottimali: per un viaggio in treno sarà più indicato un libro giallo di un romanzo filosofico, per un ritiro spirituale saranno più indicati Proust o Sant'Agostino che non il "Decamerone".
Per quanto riguarda lo spettacolo cinematografico, nato con spezzoni di pochi minuti, esso si è dilatato a poco a poco, fino ad attestarsi prima intorno all'ora e mezza, e poi alle due ore (facendo le dovute eccezioni per un numero limitatissimo di film che, da "Via col vento" in poi, sono riusciti ad infrangere questa regola, confermandone però implicitamente la validità).
La televisione, invece, non ha questo tipo di regole, o meglio ne ha delle altre: come abbiamo già detto, la soglia di attenzione dello spettatore, davanti alla televisione, è più bassa di quella che il medesimo spettatore ha nella sala cinematografica. Ne consegue che la durata ottimale della fiction televisiva è più breve di quella della fiction cinematografica, e questo spiega perché la maggior parte dei prodotti specificamente televisivi (telefilm, telenovele, eccetera) oscillino intorno alla durata media di un'ora.
E veniamo al linguaggio. Un'opera cinematografica è composta da una successione di immagini in movimento, divise in "inquadrature"; ogni inquadratura è collegata all'altra mediante uno "stacco", che viene di solito previsto in sede di regia e definito nel corso del montaggio cinematografico. La struttura e la composizione delle singole immagini sono legate per lo più a criteri grafici ed estetici, ma il montaggio è un'operazione specificamente cinematografica, poichè ogni "stacco" comporta una variazione del ritmo del racconto, e le variazioni del ritmo sono quelle che più determinano il coinvolgimento o meno dello spettatore, sia dal punto di vista emozionale che da quello intellettuale.
Ogni "stacco", infatti, comporta in certo qual modo uno "spiazzamento", spesso a livello inconscio, di chi guarda, e quindi, come abbiamo già detto, presuppone un'adesione e un'attenzione che di regola al cinema ci sono e davanti alla televisione no. Ne deriva l'esigenza, per gli spettacoli di fiction televisiva, e rispetto agli analoghi spettacoli cinematografici, di un montaggio più piano, più tranquillo, più facile da seguire. (All'estremo diametralmente opposto si colloca il linguaggio di altre forme di spettacoli televisivi, come i videoclip o certi spot pubblicitari, che perseguono proprio lo spiazzamento dello spettatore, e fanno quindi del montaggio veloce un uso provocatorio ed esasperato).
Altre differenze tra linguaggio cinematografico e linguaggio televisivo si possono trovare all'interno della struttura delle immagini, che, in un film, possono privilegiare indifferentemente i primi piani degli attori oppure i cosiddetti "campi lunghi". Fatte tutte le debite eccezioni, è abbastanza facile prevedere che i primi, sul piccolo riquadro dello schermo televisivo, conserveranno intatta la loro forza drammatica, mentre i secondi, soprattutto se pieni di figurine in movimento, potranno facilmente impoverirsi e confondersi.
Analogamente, un prodotto cinematografico potrà fare largo uso della cosiddetta profondità di campo, con obiettivi che consentano di mettere a fuoco sia i primi piani che gli sfondi (obiettivi che sono largamente utilizzati dal cinema fin dagli anni quaranta, e precisamente dal "Citizen Kane" di Orson Welles); o che consentano di ottenere l'effetto opposto, tenendo contemporaneamente, nella stessa inquadratura, un "piano" sfocato ed un altro perfettamente a fuoco. Un prodotto televisivo, al contrario, farà bene ad usare la profondità di campo con molta cautela, dal momento che lo schermo televisivo è già "sfocato" di per sè, (per via del movimento continuo del pennello elettronico), e quindi un effetto di "panfocus" può andare del tutto perso, e una trasfocata può addirittura essere scambiata per un errore fastidioso.
Infine, tra cinema e televisione c'è almeno un'ultima differenza profonda. Anche se oggi viviamo in tempi permissivi, e siamo tutti d'accordo che in nome del "comune senso del pudore" si sono commessi soprattutto abusi ed arbitrî, non possiamo dimenticare che la televisione è pur sempre una forma di spettacolo che entra indiscriminatamente in tutte le case, e che è praticamente impossibile tener fuori della portata dei ragazzini. E che presuppone quindi, sia sul piano delle immagini che dei contenuti che essa veicola, una cautela che il cinema, più trasgressivo e più selettivo per natura, può anche ignorare.
Quali conseguenze derivano, da tutto questo discorso? Essenzialmente due:
1) Realizzare un film per la televisione e realizzare un film per la sala cinematografica sono, come dicevamo all'inizio, due cose assolutamente diverse. E' come chiedere a un architetto di ideare un edificio che possa reggersi sia su palafitte che su strutture di cemento armato; o come chiedere a un ingegnere di progettare un ponte che possa avere sia una campata unica che dieci piloni intermedi. Per questo conviene diffidare, ogni volta che si legge che un certo film è stato realizzato in doppia versione, sia per il cinema che per la televisione: poichè non esiste regista, per straordinario che sia, che possa realizzare una cosa che funzioni in due "media" così differenti.
Prendiamo ad esempio il caso di "Scene di un matrimonio" di Ingmar Bergman: un mini-serial, concepito e realizzato per la televisione svedese, e dedicato all'analisi comportamentale di due personaggi, quasi sempre filmati in primo piano all'interno di una stanza. Ebbene, questo prodotto (come definirlo altrimenti? Film, telefilm, serial?) arrivò in Italia, in prima battuta, compresso in un film di più di due ore, e risultò, sullo schermo cinematografico, una cosa poveraccia e disarticolata; mentre, rivisto poi nel suo naturale contesto (il piccolo schermo) e nella sua reale struttura (sei puntate da un'ora ciascuna), risultò essere quello che era, e cioè un autentico capolavoro, del tutto degno della fama dell'autore de "Il posto delle fragole", oltre che un esempio da manuale di come si dovrebbe e si potrebbe usare il mezzo televisivo,
2) Se ci si accinge a realizzare un film per lo schermo televisivo, si conoscono i termini del problema, ed a patto di saperlo fare ci si regola di conseguenza (a parte Bergman, lo seppe fare ad esempio in maniera esemplare, in Italia ed in Francia, Roberto Rossellini). Ma che succede quando ci si accinge a realizzare un film per le sale cinematografiche, se esso è prodotto o coprodotto dalla televisione?
E' qui che, come si suol dire, casca l'asino. Poichè non c'è dubbio che, anche se formalmente il film è sempre destinato ad essere sfruttato nelle sale cinematografiche prima che sul piccolo schermo, l'ipoteca televisiva è pesante, e tale da rendere per lo meno ambigui la struttura e il linguaggio dell'opera filmica. Da un lato, infatti, la televisione (nelle vesti del produttore) non potrà non valutare il prodotto dal suo punto di vista, che resta pur sempre quello del passaggio sul piccolo schermo. Dall'altro, il regista non potrà non tener conto del fatto che sta girando una cosa che verrà vista (forse) da qualche migliaio di spettatori in una sala cinematografica, e (sicuramente) da qualche milione di altri spettatori in un contesto completamente diverso; e dovrà decidere se adottare i tempi, i modi, i codici e le soluzioni più giusti per il cinema oppure quelli più giusti per la televisione.
Che succederà (succede, è successo) allora? A questa domanda, possiamo rispondere, ahimè, in un modo molto semplice e concreto: osservando come sono andate le cose, negli ultimi vent'anni, nel nostro Paese.
In Italia, uno dei primi ad avventurarsi su questo terreno fu Federico Fellini, nel 1971, con "I clown". E finchè l'apporto finanziario della televisione fu marginale, e l'autore ebbe delle spalle sufficientemente robuste, il condizionamento fu relativamente discreto. Ma via via che il potere contrattuale della televisione cresceva, e crescevano le difficoltà di riuscire a "chiudere" un film senza il suo contributo, diventò sempre più chiaro che, se si voleva andare avanti, bisognava adottare i suoi codici comportamentali e linguistici.
Fu così che produttori e registi incominciarono, come si suol dire, ad abbozzare; e fu così che il cinema italiano incominciò a diventare sempre meno cinematografico e più televisivo.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Il cinema italiano dell'inizio degli anni novanta è quasi completamente costituito da due categorie di film:
a) piccole dignitose opere "d'autore", realizzate per lo più da registi giovani che sono costretti ad arrabattarsi con i mezzi ridotti messi a loro disposizione della televisione (sia pubblica che privata, ma, per la verità, soprattutto pubblica) e con ciò che resta (una volta finite le varie spartizioni di ogni torta) dei finanziamenti pubblici della Banca Nazionale del Lavoro. Sono i film del cosiddetto "giovane cinema italiano", e sono piccole opere che poremmo definire "da camera", poichè (visto che il modo migliore per contenere i costi è quello di ridurre il numero degli attori, degli spostamenti e delle scene di massa) si svolgono spesso in pochissimi ambienti, all'interno dei quali si muovono pochissimi personaggi.
Incidentalmente, è proprio di qui che nasce la recente fortuna delle opere teatrali trasposte per il cinema: poichè il respiro e la struttura narrativa di questo genere di film sono molto più quelli della commedia (se non addirittura dell'atto unico) che non quelli dell'opera cinematografica. E difatti questi film, finanziati dalla televisione e in effetti adattissimi alla televisione - e qui si chiude il cerchio di quella violenza strisciante di cui dicevamo poc'anzi - di solito non riescono neppure ad affacciarsi alle sale cinematografiche, e quando ci riescono lo fanno, più o meno fortunosamente, nel circuito dei cinema d'essai (che per fortuna, peraltro, sta dando recenti e insperati segni di rigoglio).
La cosa più avvilente è che molti di questi giovani autori sono anche bravi, e probabilmente potrebbero, se messi in condizioni di farlo, realizzare dei film con tutte le carte in regola. Ma chi ci darà i soldi, la spregiudicatezza e la forza sul mercato necessari per fare ciò che hanno fatto gli americani alla fine degli anni sessanta, quando hanno messo il giocattolo-cinema tra le mani dei Coppola, degli Scorsese, degli Spielberg e dei Lucas?
b) da film "commerciali" costosi e sguaiati, per lo più costruiti intorno a qualcuno dei cosiddetti "divi" della nuova generazione, ma che sono anch'essi difficilmente riconducibili al cinema (il compianto Marotta avrebbe detto che possono essere scambiati per film solo perché giacciono in scatole piatte e rotonde, odorose di pellicola). Questi film sono prodotti, come gli altri, con il determinante apporto della televisione (sia pubblica che privata, ma questa volta soprattutto privata); e, grazie soprattutto a quella situazione di monopolio (sia verticale che orizzontale) di cui si diceva poc'anzi, escono anche nelle sale cinematografiche, ottenendovi talvolta un buon successo di pubblico (donde l'opportunità di controllare anche questa fetta del mercato, acquisendo sale e rimodernandole). Ma si tratta, una volta di più, di film concepiti soprattutto in funzione del piccolo schermo, poichè molto spesso sono costruiti intorno a "divi" di estrazione televisiva, e si riducono a una successione di barzellette filmate, secondo un ritmo preciso (dieci-quindici minuti circa) che, vedi caso, è proprio quello che tollera meglio l'ingiuria delle interruzioni pubblicitarie, e che, una volta di più, non ha assolutamente niente a che fare con il ritmo e il respiro dell'opera cinematografica.
Sento qualcuno che protesta; che dice che non è vero che la situazione sia così apocalittica; che chiede dove metto i vecchi leoni che ancora di tanto in tanto ruggiscono, i Fellini, i Rosi, gli Olmi, i Monicelli; dove metto Bertolucci; dove metto i nomi più validi della nuova generazione, i Moretti, i Tognazzi, i Salvatores, i Rubini; che vuol sapere com'è che un cinema in coma possa vincere per due volte in tre anni il Premio Oscar per il miglior film straniero.
Risponderò in modo telegrafico, poichè il nostro tema è un altro, e vorrei tornarci al più presto. Chiarendo, se ce ne fosse ancora bisogno, che esprimo delle opinioni personali, e che rivendico ad esse il diritto di essere per l'appunto personali, se non addirittura faziose.
Dunque: i vecchi leoni ruggiscono sempre di meno. E sempre più spesso, il loro, sembra il ruggito del topo.
Bertolucci (buon per lui) lo metto completamente al di fuori delle strutture produttive del cinema italiano.
I nomi più validi della nuova generazione li metto in zone di confine delle due categorie suindicate; ed affido loro le sole speranze in una improbabile rinascita.
"Nuovo Cinema Paradiso" era sì un film da Oscar, ma non a caso ci stava dietro l'ultimo vero grande produttore del cinema italiano; mentre "Mediterraneo", che peraltro è un film più che decoroso, può essere scambiato per un film da Oscar solo in un'ottica, prettamente americana, di "italiani brava gente".
E per concludere, quanto al fatto che la situazione non sia così grave come quella descritta, permettetemi di raccontarvi in breve (prima di riprendere il filo del discorso) una mia recente visita a Cinecittà.
Non so se voi ci siate mai stati, a Cinecittà: è un posto solare, aperto, pieno di verde e di magia, dove qua e là, attraverso i pini, occhieggiano una fortezza medioevale, un foro romano, un villaggio messicano. Federico Fellini, nell' "Intervista", ne fece un quadro pieno di affetto, di colore e di rumore, che resta sostanzialmente, al di là delle consuete esagerazioni del Nostro, un ritratto puntuale e fedele.
Beh, recentemente ci sono tornato, a distanza di un paio di mesi dall'ultima volta che ci ero stato.
Immaginatevi dei viali deserti. Degli operai che stavano finendo di sistemare all'ingresso dei tornelli magnetici di accesso, quegli orrendi figli della burocrazia e della paura, che imperano in qualsiasi Maxiazienda e in qualsiasi Ministero fin dagli "anni di piombo". Dei cartelli precari che indicavano la strada per arrivare (cito a memoria) a "Serata d'onore", a "Partita doppia" o a "Caffè italiano". Almeno una ventina di camion della Rai, della Fininvest, di Telemontecarlo, della SBP e di altre Società di services televisivi. Metà dei teatri di posa chiusi ed abbandonati. L'altra metà aperta, con dentro delle scenografie tutte uguali una all'altra, tutte sale, salotti e salottini, con tante poltroncine in fila sulle quali far sedere degli ospiti che poi, guidati dal mauricostanzo di turno, potessero parlare, discutere, litigare, insultarsi e riempire così un paio d'ore di palinsesto. Molte facce sconosciute che ti guardavano con indifferenza. Poche facce note, di sopravissuti che si guardavano attorno smarriti come se si trovassero su un altro pianeta. Insomma, il clima era esattamente quello, sospeso e opprimente, di una città occupata da un esercito nemico, così come tante volte l'avevamo vista sullo schermo del cinema. Solo che questa volta i termini erano ribaltati: l'occupazione era vera, e, paradossalmente, quella che era occupata era proprio la città del cinema.
Di un cinema, diciamocelo finalmente una volta per tutte, che è morto, anche se ci si rifiuta di ammetterlo. Quando a Bologna, e non solo a Bologna, si facevano tante parole sul se, sul come e sul quando sarà possibile tenerlo in vita, sapevamo tutti benissimi che stavamo mentendo, e che il problema, caso mai, era se, come e quando sarà possibile riportarcelo, in vita.
E con la speranza che quest'ultimo voto si avveri chiudiamo la mesta parentesi che riguarda il cinema italiano, e ritorniamo ai rapporti tra cinema e televisione. Poichè, dopo aver parlato della violenza strisciante che arriva dall'interno, è venuto il momento di parlare di quell'altra, manifesta e brutale, che colpisce dal di fuori, infierendo sulla stessa integrità fisica del film.

LO STUPRO VERO E PROPRIO.

Tutto ciò che si è detto a proposito di quanto sia meglio vedere un film nella sala cinematografica piuttosto che sul piccolo schermo, presuppone naturalmente che ci sia la possibilità di scelta. Ed è utile tenerlo presente soprattutto per avversare la perniciosa tendenza a procurarsi delle versioni "pirata" in videocassetta di film che si trovano ancora (o non sono neanche ancora usciti) sugli schermi di prima visione. Fenomeno, questo, che è molto più diffuso di quanto non si pensi, e che alimenta un "giro" di quattrini sufficiente a suscitare gli interessi della malavita organizzata (e basta vedere, infatti, come prolifica in tutti i luoghi in cui il commercio si svolge notoriamente ai limiti della legge, come le Porte Portese, i mercatini e i Balôn di tutta Italia).
Il fatto che la legge punisca sì la cosiddetta "pirateria" ma che poi, sul piano pratico, chiuda tutti e due gli occhi, avalla l'equivoco di comodo che si tratti, in fondo in fondo, di un peccato veniale, mentre a tutti gli effetti è un reato equiparabile, se non al furto, almeno alla ricettazione.
Paradossalmente, di solito, chi acquista una cassetta "pirata" non si rende conto di danneggiare, e non poco, la "causa" del cinema (e non solo perché gli sottrae dei proventi economici ma perché impercettibilmente continua ad allontanarsi dalla sala cinematografica). Nè si rende conto di danneggiare se stesso: poichè, al di là degli aspetti etici e giuridici della cosa, le videocassette cosiddette "pirata", per essere state duplicate in maniera fraudolenta e spesso avventurosa, sono spesso di pessima qualità, e quindi a tutto ciò che si è detto finora sulla perdita di qualità di un film per il solo fatto di essere fruito attraverso il piccolo schermo, si aggiunge un ulteriore degrado determinato dal livello della riproduzione. E mi sembra incredibile che chi fa ricorso a questa soluzione non riesca a capire che vedere malamente una cosa che si può vedere bene è un sintomo inequivocabile di masochismo e/o di ottusità .
Senonchè, sappiamo tutti che la maggior parte dei film (e soprattutto quelli del passato) non li possiamo più vedere se non in televisione; e che anzi di questo dobbiamo esserle comunque e profondamente grati. (Tra l'altro, sono proprio la televisione e il videoregistratore che ci consentono oggi di mettere insieme una nostra privata "cassettoteca" , realizzando una ipotesi che aveva fatto René Clair trent'anni fa, e che era ben difficile pensare che potesse tramutarsi in realtà così in fretta ).
Stando così le cose, facciamo un passo indietro, e torniamo al momento in cui la televisione manda in onda un film che a noi interessa; e noi, felici di rivederlo sul piccolo schermo per l'impossibilità di vederlo altrove, ci accingiamo a godercelo, pur consci di tutti i limiti imposti dal contesto domestico.
Ahinoi. Del film, qualche volta, ne resta ben poco. Talchè fra i cinefili, da qualche anno in qua, circola una battuta di vaga saggezza e rassegnazione orientale: "Se non hai ancora rivisto quel Tale Film, non devi fare altro che sederti davanti al televisore, e aspettare: prima o poi vedrai passare il suo cadavere".
La nostra strada di (tele)spettatori fiduciosi e cinefili, infatti, é costellata da tutta una serie di trappole truffaldine: trappole che fanno sì che il film che vediamo sia profondamente e intrinsecamente diverso da quello che era quando è stato realizzato e proiettato a suo tempo nella sala cinematografica.
Si tratta di vere e proprie manomissioni, compiute brutalmente, come dicevamo, sulla stessa natura fisica dell'oggetto film. Alcune di esse sono note e facilmente identificabili, altre lo sono molto di meno. E per mettervi in grado di riconoscerle meglio ne parleremo in capitoletti autonomi.

Gli spot pubblicitari.

Rappresentano, se non il più grave, il più noto e più riconoscibile dei molti attentati che il film subisce nella sua reincarnazione televisiva. La Rai, se non ha altro, ha la delicatezza di riunirli in un unico blocco, tra la fine del primo tempo e l'inizio del secondo. Ma la televisione privata non può permettersi certe debolezze, e ne caccia fuori una raffica ogni dieci o quindici minuti.
Di questo sistema di tagliare a fette i film e di farcirli di spot pubblicitari, come se fossero dei panini imbottiti, si è detto e scritto così tanto che mi considero dispensato dal dilungarmi sull'argomento più dello stretto necessario. E' sufficiente richiamare alla memoria ciò che si è detto nella prima parte di questo discorso, sulla complessità di quella reazione alchemica che consente, nella sala cinematografica, di far nascere l'emozione e di far scattare il meccanismo dell'identificazione, per capire quali effetti devastanti possa avere, su un equilibrio così delicato, l'irrompere di una serie di messaggi commerciali, che spesso sono fracassoni e triviali, e che comunque non c'entrano per niente con il contesto del film.
Oltretutto, lo abbiamo già detto, ogni film ha una sua architettura e un suo ritmo, che sono il frutto della sensibilità e del mestiere di chi l'ha fatto. Questa architettura e questo ritmo sono fatti, di solito, di un'alternanza di scene madri e scene di raccordo, di accelerazioni e decelerazioni, di climax e di pause. E molto più spesso di quanto non si creda gli spot vengono inseriti con criteri da geometra e non da architetto (una interruzione pubblicitaria ogni tot minuti), con totale disinteresse per il punto in cui interrompono la vicenda, che può benissimo essere un "crescendo", se non addirittura un momento di climax.
Per riprendere il paragone sportivo che si è fatto prima, è un po' come se una squadra di calcio, oltre che giocare fuori casa, venisse costretta a interrompere la partita ogni dieci minuti per andare a prendere un caffè, e a riprenderla ogni volta esattamente dal punto in cui la si era interrotta (a prescindere dal fatto che fosse in atto un ben concertato gioco di difesa o una discesa verso la porta avversaria). Una simile idea, suppongo, verrebbe considerata assurda non solo da qualsiasi giocatore ma anche da qualsiasi tifoso, mentre invece la maggior parte degli spettatori sembra accettarne di buon grado l'equivalente televisivo (e talvolta ne è addirittura grata, perché ogni interruzione pubblicitaria consente di spicciare tante piccole faccende, come mettere a letto il bambino, bersi una Coca-Cola, fare quella certa telefonata o andare a fare pipì).

Le sovraimpressioni.

Un discorso molto simile si può fare in merito alle sovraimpressioni.. Sono quelle scritte che non interrompono il film, ma compaiono, spesso strisciando, alla base del teleschermo, ed entrano da destra ed escono da sinistra mentre il film continua a procedere. Succede così che, mentre Gary Cooper affronta i tre banditi nello scontro finale di "Mezzogiorno di fuoco", o Bogart e la Bergman si scambiano roventi parole d'addio a "Casablanca", qualcuno si preoccupi di informarvi che Juventus e Atalanta sono attualmente 2 a 2, o che alla fine del film andrà in onda un dibattito sulla menopausa. Qualche tempo fa è stata sperimentata addirittura l'apertura di una "finestra", all'interno dell'immagine in movimento, in cui si vedevano delle immagini dei programmi successivi: con tanti saluti all'attenzione, alla concentrazione, all'effetto di straniamento eccetera eccetera.

I mascherini.

A questo punto, dopo aver bonariamente ironizzato sui geometri (categoria professionale, peraltro, di degnissime persone) sono costretto a fare il geometra anch'io. O, se preferite, a darvi un po' di numeri.
Dunque, il cinema è nato, ed è vissuto per più di mezzo secolo, su uno schermo rettangolare che aveva un rapporto dimensionale di 1:1,33. Vale a dire che il lato più lungo (la base) era di un terzo superiore a quello più corto (l'altezza).
A parte tentativi sporadici e senza seguito (come il "Napoléon" di Abel Gance, che fu un antenato del Cinerama), questo tipo di schermo rimase inalterato fino al 1953, quando il cinema americano, (che stava sperimentando una serie di innovazioni tecniche, nel tentativo di contrastare il crescente strapotere della televisione), lanciò, a cominciare da "La tunica", il cosiddetto Cinemascope, un sistema che si basava sulla compressione delle immagini per mezzo di lenti anamorfiche. I film girati in Cinemascope venivano proiettati su uno schermo di rapporto 1:2,55 (il che significa che la base era due volte e mezza più lunga dell'altezza): formato che, dopo aver subito vari assestamenti tecnici e aver assunto varie denominazioni, è usato ancora ai giorni nostri. E che comunque comportò un tale spostamento del gusto del pubblico da far sì che anche i film che non adottavano il Cinemascope si spostassero verso il gigantismo e assumessero un rapporto diverso dall'1.33, e che oscilla fra l' 1.66 e l' 1.85.
Ora, lo schermo televisivo nacque con un rapporto dimensionale che era molto simile a quello originario del cinema: sicchè i vecchi film si inseriscono nel teleschermo senza nessun problema, poichè la perdita laterale é del tutto irrilevante.
Ma quando si trattò di "passare" in televisione un film in Cinemascope, furono ovviamente dolori, poichè il film aveva una "forma" bassa e allungata del tutto diversa da quella dello schermo televisivo.
Il problema, per la cronaca, sta per essere risolto "a monte": é del 1992, infatti, la notizia che le più importanti Aziende multinazionali che producono apparecchi televisivi hanno finalmente raggiunto un accordo per stabilire il nuovo rapporto dimensionale del teleschermo del futuro, rapporto che si avvicina a quello del Cinemascope (e incidentalmente a quello di quei famosi schermi "a parete" di cui abbiamo già parlato, e di cui Bradbury aveva previsto l'avvento in "Fahrenheit 451").
Ma anche se il futuro è già cominciato, noi stiamo parlando della situazione di oggi, e la situazione di oggi è tale che, se si vuole vedere nella sua interezza un film in Cinemascope su uno schermo televisivo bisogna operare un drastico rimpicciolimento dell'immagine, prendendo come riferimento non già i suoi due lati orizzontali ma i due verticali; e lasciando al di sopra e al di sotto della striscia dell'immagine del film due "mascherini", o "bande nere", che insieme equivalgono pressapoco al 5O% dell'altezza totale del teleschermo. Così facendo, l'immagine risulta avere la forma di una busta da lettere commerciale posata su un fondo nero: e infatti questo tipo di "messa in onda" viene chiamata dagli americani "letter box".
L'impressione, dal punto di vista dello spettatore, è del tutto negativa, poichè egli ha l'impressione (sbagliata) di vedere solo mezza immagine, e di essere defraudato dell'altra metà. Sicchè, anche se questo è di gran lunga il modo "meno peggiore" per risolvere il problema, è stato pian piano abbandonato a favore della soluzione dello "scanning".

Lo "scanning".

Tradotto letteralmente, "to scan" significa "analizzare, esplorare (una immagine)", ma lo si può anche tradurre con onomatopeica licenza con "scannare". In questo caso, naturalmente, la traduzione è del tutto arbitraria, ma ben si attaglia a una procedura che è la più selvaggia e brutale fra tutte quelle in cui si articola la violenza televisiva sul cinema. Dunque, se si vogliono evitare le "bande nere" orizzontali che riducono l'immagine sul teleschermo ad una "letter box", c'è solo un'altra soluzione: quella di tornare a prendere come punto di riferimento i due bordi orizzontali dell'immagine anzichè i verticali; e far coincidere quelli, anzichè questi, con i rispettivi bordi del teleschermo.
Così facendo, è evidente che si torna a "riempire" lo schermo televisivo; ma è altrettanto evidente che, su di esso, trova spazio solo la parte centrale dell'immagine cinematografica, le due propaggini laterali della quale (sia a destra che a sinistra, e per un totale di quasi il 50% dell'immagine completa) restano "tagliate fuori".
Succede quindi esattamente il contrario di quello che succedeva prima: con la soluzione dei "mascherini", lo spettatore ha l'impressione di essere orbato di una metà dell'immagine, ma invece la vede tutta (ancorchè rimpicciolita): mentre, con la soluzione dello "scanning", ha l'impressione di vedere tutta l'immagine, e in realtà ne vede poco più di metà. Per di più, la vede ingrandita, e, poichè il pennello elettronico fa quello che può, con una considerevole perdita della definizione e della fedeltà dei colori.
Non è finita. Soprattutto agli inizi del Cinemascope, si tendeva a sfruttare il più possibile la forma allungata dello schermo, e non di rado succedeva che due personaggi che parlavano fra di loro venissero collocati uno a una estremità dell'inquadratura e uno all'altra, lasciando in mezzo uno spazio scenografico in cui normalmente non succedeva niente.
Ora, se voi applicate il procedimento dello "scanning" ad una inquadratura come quella descritta, che cosa vedete? Praticamente, uno schermo vuoto (poichè tale è la parte centrale dell'immagine), con due voci che parlano fuori campo (poichè le due estremità, in cui si trovavano i due attori dialoganti, sono rimaste "tagliate fuori").
Vi sembra ridicolo? Avete perfettamente ragione; eppure si sono viste più di una volta in televisione delle lunghe inquadrature di dialogo in cui, a parlare fra di loro, erano due personaggi di cui si vedevano sì e no, alle due estremità dell'immagine, i rispettivi nasi.
E tuttavia, non è ancora finita. Poichè, a un certo punto, qualcuno si accorse che la cosa, così, non poteva andare avanti. Ed escogitò un rimedio che forse migliora le cose dal punto di vista dello spettatore, ma che dal punto di vista cinematografico è molto peggio del male.
Cosa fecero, e fanno tuttora con grande allegria, i responsabili della messa in onda televisiva dei film? Incominciarono a decidere loro, inquadratura per inquadratura, quale parte dell'immagine bisognava scegliere in sede di riversamento della pellicola su nastro magnetico: se quella centrale, quella di destra o quella di sinistra. E poichè spesso, all'interno di una stessa inquadratura, parlava prima il personaggio di destra e poi quello di sinistra, aggiunsero degli "stacchi" interni a quelli del montaggio originale, o dei movimenti di macchina elettronici (da destra a sinistra o da sinistra a destra, alla "ricerca" del personaggio che parlava), che l'operatore del film non si era mai sognato di fare.
La cosa, a non rifletterci bene, può anche sembrare una soluzione geniale di un problema apparentemente insolubile; e comunque sicuramente non tale da suscitare l'indignazione che sembra suscitare in colui che leggete. E tuttavia, se ponete mente a quanto si diceva prima a proposito dell'importanza degli "stacchi" ai fini della determinazione del ritmo, (e aggiungiamo pure l'importanza dei movimenti di macchina, la cui funzione e la cui economia fanno parte dell'abbicì della regia), non potrete non comprendere come aggiungere panoramiche e stacchi al montaggio di un film possa modificarne profondamente il ritmo, l'efficacia e la stessa struttura linguistica. (Oltretutto, cosiderate che questo lavoro, in concreto, lo fa un tecnico del riversamento, di solito affatto privo di qualsiasi nozione di regia e di montaggio: è un po' come se gli imbianchini che stanno ripulendo le pareti del Louvre decidessero lì per lì, per renderla più visibile, di dare una ripassatina anche alla Gioconda).

La colorizzazione.

Proprio nei giorni in cui scrivo queste righe, sono apparse nelle edicole italiane delle videocassette che annunciano trionfalmente dei film di Stanlio e Ollio "finalmente a colori!". E, dal momento che ciò che fa ridere nei film di Laurel & Hardy sono tutta una serie di cose (gli ammiccamenti di Ollio, le facce di Stanlio, le pause, le gag) che sicuramente con i colori non hanno un bel niente a che fare, vorrei che qualcuno mi riuscisse a spiegare per quale contorto ragionamento si può pensare che un film di Stanlio e Ollio a colori sia più divertente dello stesso film in bianco-nero.
La colorizzazione (brutta parola che discende in linea retta dall'inglese "colorization") nasce in America verso la metà degli anni ottanta, dall'affinarsi delle tecnologie elettroniche e dal deterioramento del gusto del pubblico, deterioramento che lo porta a rifiutare in modo sempre più evidente qualsiasi immagine che non sia a colori. E' chiaro che in termini economici la cosa può avere ricadute molto negative, poichè non consente più di attingere al ricchissimo serbatoio della produzione cinematografica degli anni trenta e quaranta: e così si corre ai ripari, mettendo a punto un procedimento che consente di colorare, per mezzo di un computer, ogni singolo fotogramma di film, e di trasformare quindi un film nato in bianco-nero in un film a colori. (Poichè questo, a differenza di tutti gli altri interventi descritti finora, è un procedimento che ha dei costi decisamente elevati, il cinema italiano, per il momento, se ne è salvato: ma date tempo al tempo, e state tranquilli che prima o poi arriveremo a vedere a colori anche "Ladri di bibiclette" o "Paisà").
Poco importa alla gente che i colori così ottenuti siano pallidi e slavati, un po' simili a quelli delle telenovele sudamericane; poco importa che Frank Sinatra, noto come "The voice", ma anche come "Blue eyes", si sia ritrovato in non so più quale film con un bel paio di occhi marroni. E poco importa, soprattutto, che il film non sia nato in quel modo, e che a suo tempo tutto uno stuolo di valenti artigiani ed artisti si fossero preoccupati di ottenere dal gioco dei bianchi e dei neri, dall'uso delle luci e delle ombre, la massima resa in termini di suggestione e di emozione. Qualsiasi altra considerazione si vanifica di fronte alle cifre degli esperti di marketing: alcuni film, rilanciati in televisione e sul mercato dell'home-video in versione a colori, hanno ottenuto negli Stati Uniti un successo (sia in termini di audience che in termini di vendita) dieci volte superiore a quello che avevano ottenuto nella versione in bianco-nero. E ciò è stato più che sufficiente a innescare un altro di quei giganteschi "businness" che hanno fatto grande la nazione americana, ma l'hanno anche impoverita sul piano culturale.
Come già in altri casi, infatti, di fronte all'imperativo economico, è stata messa a tacere qualsiasi considerazione di ordine estetico e critico. Non si è capito (o ci si è rifiutati di capire) che l'immagine a colori è quasi sempre una riproduzione della realtà così come si presenta ai nostri occhi, e consente quindi un margine di interpretazione personale (da parte dell'autore) e di straniamento (da parte dello spettatore) molto ridotto: là dove il bianco-nero consente una stilizzazione della realtà che permette di applicarle dei "codici di interpretazione", e quindi di reinventarla, influendo sia sui risultati estetici che su quelli espressivi.
Non a caso ci sono stati, nell'arco di questi cent'anni di storia del cinema, alcuni momenti-chiave (come i film dell'espressionismo tedesco, il cinema americano degli anni trenta-quaranta, i film del neorealismo italiano e quelli della "nouvelle vague" francese) che erano in bianco-nero non solo e non sempre perché non esisteva il colore, ma perché i climi e le atmosfere che essi si prefiggevano di ottenere non potevano passare che attraverso il bianco-nero. (Come hanno perfettamente capito, in anni recenti, Martin Scorsese e Woody Allen, non a caso due dei più colti e più "europei" fra i registi americani; che sono riusciti a girare "Toro scatenato" e "Ombre e nebbia" in bianco-nero, solo dopo estenuanti discussioni con i loro produttori e finanziatori).
Tanto per non fare che un esempio, quindi, colorizzare un film come "Il mistero del falco" di John Huston, non significa solo fare un affronto all'autore (che tra l'altro, quando la cosa è stata fatta, era ancora vivo), ma anche cancellare con un colpo di spugna tutte le atmosfere dei film "noir" americani degli anni quaranta, e tutta la storia e la cultura da cui essi nascevano (i postumi della recessione, la paura della guerra, l'incipiente angoscia metropolitana, la letteratura "hard boiled" e così via): appiattendo il film, e riducendolo alla storia piuttosto confusa di un gruppo di persone che si ammazzano tra loro per il possesso di una statuetta.
Per fortuna, almeno per il momento, si direbbe che il pubblico italiano dimostri una maturità ed un buon senso superiori a quelli dei suoi omologhi d'oltreoceano, almeno a giudicare dal modesto successo ottenuto dai pochi film colorizzati proposti finora dalle reti televisivi. Di ciò non possiamo che rallegrarci; come non possiamo non indignarci del fatto che questi film siano stati mandati in onda, nella maggior parte dei casi, senza una parola di spiegazione e di avvertimento, che informasse lo spettatore che quel film era stato manomesso, e che, volendo, lo si poteva riportare alla sua forma originale intervenendo sul croma dell'apparecchio televisivo.
Spero che, a questo punto, vi sia chiara una cosa: molto spesso, il film che voi vedete in televisione non è più quello stesso film che ricordate di aver visto a suo tempo nella sala cinematografica. E' semplicemente ciò che ne resta, dopo che è stato imprigionato, sezionato, imbottito, colorato, mutilato, gonfiato, rimontato, umiliato, violato, sia in quella che potremmo definire la sua anima che in quello che potremmo definire il suo corpo. In una parola, dopo che è stato stuprato.
Tutto questo vi sembra lecito? La ragione e il buon senso dicono a chiare lettere di no. Ma la cosa più assurda (quella che aggiunge al danno le beffe) è che lo dice anche la legge, per la quale l'autore "può opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione o altra modificazione dell'opera... che possa essere di pregiudizio al suo onore e alla sua reputazione". E questa non è una battuta di un film di Stanlio e Ollio, ma l'art. 2577 del nostro Codice Civile.
Tutti gli interventi di cui abbiamo parlato, a questo punto, dovrebbero essere vietati per legge, poichè ognuno di essi costituisce una evidente violazione di quel diritto d'autore che il Codice Civile asserisce di voler proteggere: e invece la legge tace, mentre lo "scanning" e le altre forme di manomissione (tutte provenienti dall'America, terra di libertà: dove per libertà, evidentemente, si intende soprattutto quella di subordinare ogni altro diritto e ogni altra logica a quelli dello sfruttamento economico) continuano a sconciare tranquillamente ogni tipo di film.
Una ennesima prova, se ancora ce ne fosse bisogno, del dispregio in cui viene tenuto non solo il diritto dell'autore a che la propria opera non venga manomessa, ma anche il diritto del telespettatore ad essere trattato come un essere raziocinante, e non come una pecora del gregge dell'audience.


FUORI PROGRAMMA (CONCLUSIVO)

Ho detto all'inizio che questo libriccino si proponeva di mettervi in guardia contro i molti attentati e le molte violenze che il cinema subisce quando "passa" in televisione; e che ambiva a diventare un piccolo "manuale di sopravvivenza" per il telespettatore che ama il cinema.
Man mano che procedevo, però, mi sono reso conto che sopravvivere non basta: siamo in guerra, ed in guerra bisogna combattere.
Contro chi? Contro l'arroganza e la violenza di una televisione che non è mica poi molto lontana da quella di Orwell e di Bradbury; contro la tendenza a svilire la cultura in genere, e quella cinematografica in particolare; contro chi vuole privarci, a qualsiasi livello, delle nostre facoltà critiche e delle nostre possibilità di scelta.
Quali sono le armi con cui possiamo combattere? Sono le stesse di cui parlano i manuali di tattica e di strategia, e di cui tutti i grandi strateghi della storia, da Cesare a Napoleone, si sono sempre serviti. Prima di lasciarvi, un po' per celia e un po' per non morire, cercherò di compendiarle in un piccolo "decalogo" pratico e comportamentale, che serva da riepilogo a tutto ciò che si è detto.

1) Resistenza attiva: se c'è la possibilità di scegliere, preferite sempre e comunque le sale cinematografiche alla televisione. Anche se non c'è più quel campo magnetico che c'era una volta, la sala è pur sempre un luogo dove si trovano altre persone che la pensano come voi, e dove il film che vi interessa può coinvolgervi meglio.

2) Scelta del campo di battaglia: decidete in che cinema andare non solo in funzione del film ma anche in funzione della sala e delle sue caratteristiche (dimensione e qualità dello schermo, comfort e collocazione delle poltrone, modernità dei sistemi di proiezione, sollecitudine del proiezionista a correggere eventuali inconvenienti, eccetera).

3) Resistenza passiva: se un film è infarcito di pubblicità, gonfiato dallo "scanning", colorizzato o sovraimpresso, rinunciate a vederlo; e boicottate inesorabilmente le reti che di solito trasmettono i film in questo modo.

4) Cura della propria trincea: se decidete di vedere un film in televisione, cercate, nei limiti del possibile, di ricreare l'habitat della sala cinematografica (abbassare la luce, staccare il telefono, chiudere le porte, eccetera). Più riuscirete a estraniarvi dal contesto domestico, e più apprezzerete il film.

5) Tecnica di guerriglia n°1: se proprio non volete rinunciare a vedere un certo film, e questo viene mandato in onda infarcito di pubblicità (e naturalmente se possedete un videoregistratore), registratelo e rivedetelo in un secondo tempo, passando ad alta velocità tutti gli inserti pubblicitari.

6) Tecnica di guerriglia n°2: togliete il croma dall'apparecchio televisivo quando viene trasmesso un film colorizzato. Comunque, sarà più bello in bianco-nero, perché è così che è stato "pensato" dai suoi artefici.

7) Approvvigionamenti: fatevi una vostra "cassettoteca storica", magari consultando qualche "Storia del cinema" (che è sempre e comunque un libro affascinante). Se anche non avete la pazienza di seguire sistematicamente i programmi delle varie reti per registrare i film che vi interessano, tenete presente che ormai, sul mercato dell'home-video, c'è quasi tutto il cinema sonoro, e comincia ad esserci anche un bel po' di cinema muto.

8) Attenzione ai collaborazionisti: rifiutate sempre e comunque di acquistare o noleggiare le videocassette "pirata". A prescindere da considerazioni etiche e giuridiche (la pirateria è un reato, e voi ve ne rendete complici), le videocassette pirata sono quasi sempre di pessima qualità.

9) Attenzione agli agguati: scegliete oculatamente le videocassette in commercio, escludendo tutte quelle che fanno uso di "scanning". E' vero che di solito non le si può controllare prima dell'acquisto, ma è anche vero che, a seconda della marca o della collana, si possono estrapolare delle tendenze, e fare delle previsioni di massima. Talvolta c'è anche scritto (piccolo piccolo, ma qualsiasi filatelico lo troverà facilmente) "Versione a pieno schermo": che, ovviamente, è un eufemismo che sta per "scanning".

10) Propaganda: Cercate di spiegare ai vostri amici il vostro punto di vista, e di convincerli del fatto che è quello giusto. La propaganda ed il proselitismo sono armi importantissime, ed essere consci di un problema è una premessa magari non sufficiente ma certo necessaria per cercare di risolverlo. E tutti noi, insieme, possiamo contribuire a risolverlo, non solo per quanto riguarda noi stessi e le nostre abitudini, ma anche, in qualche misura, a livello di collettività.

Molti giochi, infatti, sono ancora aperti, e chi ne stabilisce le regole sostiene di farlo in nome del pubblico.
Bene, voi siete il pubblico. Fatevi sentire. Se vi danno retta, bene. Se no, avete una testa, un giornale con l'elenco delle sale cinematografiche, e un telecomando.
Adesso, poi, avete anche questo libretto.
Sapete che cosa vi resta da fare.

Corrado Farina (1993)

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