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SVILUPPI ( PREMEDITATI E NON )

Nel vorticoso avvicendarsi delle iniziative che il Palazzo delle Esposizioni di Roma ospita da quando è stato ristrutturato e riaperto, non si può non segnalare una singolare mostra fotografica che vi si è svolta dal 18 settembre all'11 novembre 1991: una mostra intitolata SVILUPPI NON PREMEDITATI, con un felice calembour verbale che ruota intorno al duplice significato della parola "sviluppo", intesa da un lato come "reazione chimica che porta alla nascita di una immagine fotografica" , e dall'altro come "evoluzione di alcunché verso una forma superiore o comunque diversa". Nella fattispecie, ciò che evolve è la tecnologia della fotografia, ed in particolare la tecnologia Polaroid; e non è certo un caso che la società americana figurasse tra gli organizzatori (ma in questo caso il termine più corretto sarebbe sponsor) della mostra, insieme all'Assessorato alla Cultura del Comune di Roma e al benemerito Istituto Superiore di Fotografia.

In che cosa consiste la singolarità della mostra di cui stiamo parlando? Essenzialmente nel fatto che si trattava di una mostra una e trina, composta da tre sezioni, ognuna delle quali aveva una sua connotazione ben specifica; restando come unico elemento comune (o meglio, accomunante) l'utilizzo di materiale Polaroid per la realizzazione delle varie opere esposte.

Le tre sezioni, nella fattispecie, erano:

1) Una selezione di 240 immagini, facenti parte della Collezione Internazionale Polaroid (e realizzate sia con pellicole a sviluppo immediato, sia con normali pellicole negative e/o invertibili).

2) Una documentazione degli studi fotografici eseguiti sulla Pala della Trasfigurazione di Raffaello e durante il restauro dell'Ultima cena di Leonardo da Vinci.

3) Una mostra "in progress", via via allineante i risultati di un workshop di undici artisti e fotografi, a ognuno dei quali, nella prima quindicina di ottobre, è stata messa a disposizione per una intera giornata una fotocamera Polaroid 50x60, in grado di produrre in un minuto delle fotografie del formato di un piccolo poster.

Va detto subito che, delle tre sezioni, quella che è sembrata la più debole, nel contesto generale, è stata proprio la prima; non per la qualità delle opere esposte (di cui diremo fra poco), ma per la sua, come dire, "estraneità" alla fisionomia globale dell'iniziativa. Il sottotitolo della mostra, infatti, era La fotografia immediata fra tecnologia ed arte: ed era quindi lecito pensare di trovarvi esclusivamente materiale prodotto con pellicole a sviluppo immediato, quelle, per l'appunto, che si tende solitamente a identificare con il marchio Polaroid. Là dove gran parte delle fotografie della Collezione Internazionale, come si è detto, erano state realizzate con macchine fotografiche normalissime, e normalissime pellicole a 35 mm.

Tutto questo non significa affatto che molte delle opere esposte non fossero estremamente intriganti e fascinose: e può indurre a qualche considerazione sulla crisi della fotografia contemporanea il fatto che le più interessanti fossero proprio quelle che più erano indebitate verso forme di intervento che non appartengono alla fotografia in senso stretto. Come ad esempio certe doppie esposizioni (le fanciulle di Jerry Uelsmann, immerse tra i fogli e le foglie), e soprattutto certi collages: le donne-farfalla di Sandi Fellman, suggestivo aggiornamento tecnologico delle contaminazioni ottocentesche di Grandville; o le "banchine di underground" di Patrick Nagatani e Andrée Tracey, provocatorie e cromaticamente aggressive come certi fumetti di Andrea Pazienza; o ancora, quei paesaggi metropolitani di John Craig, sospesi tra passato e futuro, che non sarebbero dispiaciuti probabilmente al Calvino delle Città invisibili.

Che dire invece della seconda sezione, dedicata, come già accennato prima, alla riproduzione fotografica di opere d'arte? Che cosa rimane, al di là dell'ammirazione per la straordinaria tecnologia utilizzata (le foto sono state scattate o con la Polaroid 50x60, o addirittura con una camera oscura appositamente costruita sul posto, e facente capo a un dorso portapellicola di 3 metri per 1)?

Rimangono, indiscutibilmente, i molti vantaggi sottolineati dal catalogo: la possibilità di avere riproduzioni originali in scala 1:1, evitando la "sgranatura" che inevitabilmente consegue agli ingrandimenti; la possibilità di avere un riscontro immediato, e quindi di correggere subito eventuali errori di esposizione per ottenere il massimo di fedeltà all'originale; la possibilità di portare in giro "urbis ed orbis" opere d'arte di per sé inamovibili. Ma a tutti questi vantaggi (apprezzabili soprattutto a livello specialistico) se ne potrebbe aggiungere anche un'altro, che il catalogo

tace e che invece non è affatto secondario: la possibilità di toccare con mano, e di far toccare con mano a quante più persone possibile, lo sfacelo a cui sta andando incontro una gran parte del nostro patrimonio artistico: poiché, all'uscita della seconda sezione della mostra, dopo aver visto le riproduzioni fotografiche (incredibilmente fedeli e quindi incredibilmente impietose), resta soprattutto un senso di grande sgomento per le tragiche condizioni in cui versa, anche a restauro effettuato, l' Ultima cena di Leonardo.

E veniamo alla terza sezione, che è probabilmente la più interessante, e che, come si è già detto, è nata in loco, giorno dopo giorno, man mano che gli artisti lì convenuti si confrontavano con le possibilità offerte loro da una macchina fotografica sui generis quale è la Polaroid 50x60.

Eccoci finalmente "in tema", e cioè alla vera ragion d'essere della mostra, e alla piena giustificazione del titolo: poiché credo che neppure il più esperto dei fotografi sia mai in grado di prevedere del tutto che cosa uscirà, a foto sviluppata e stampata, da quella magica frazione di secondo ( "clic") che determina la nascita di una nuova fotografia. "Sviluppi non premeditati", dunque, ed a tutti gli effetti: con la possibilità di toccare con mano, immediatamente, quel che di imponderabile (non premeditato e non premeditabile) che separa l'ispirazione creativa dal suo risultato concreto.

Tutto questo, presumibilmente, lo si poteva verificare soprattutto nei giorni del workshop, via via che la sperimentazione procedeva. A iniziativa conclusa, però, resta qualcosa di non meno interessante e di non meno valido: la testimonianza di quella che potremmo definire "universalità della creatività", quel gioco di rimandi, di scambi, di convergenze e di scarti dell'immaginazione che nasce ogni volta che un artista sia chiamato ad esprimersi con un mezzo che non è quello con cui abitualmente si esprime.

Perché, dei vari artisti convenuti al Palazzo delle Esposizioni di Roma, meno della metà erano fotografi professionisti (Joe Oppedisano, Enrico Giovenzana, Cristina Ghergo, Flavio Bizzarri, Nino Migliori); ed essi si sono limitati a esibire coram populo un processo creativo che è presumibilmente "loro pane quotidiano". Gli altri erano invece personaggi che difficilmente si potrebbero collocare all'interno di una categoria creativa ben definita, e che meglio si potrebbero definire (come Gillo Dorfles ha definito uno di essi) dei "visualizzatori globali".

Chi erano, dunque, costoro? C'erano due pittori (ma anche autori di film sperimentali) (Mario Schifano e Luca Patella); un pubblicitario (ma anche pittore) (Armando Testa); un autore di computer-animation (Mario Sasso); un regista cinematografico (Francesco Maselli); e infine, last but non least, un poeta-giornalista-scrittore (Lamberto Pignotti). E dall'incrocio di tante e così diverse esperienze di comunicazione (di massa e di élite) è scaturito un panorama vario, composito, e direi anche divertente, di ciò che può generare dal nulla la mente umana quando le venga messo a disposizione il mezzo per farlo (anche se si tratta di un mezzo praticamente sconosciuto).

Alcuni esempi, fra i tanti (troppi) possibili? Il curioso parallelismo fra le macrofotografie di Giovenzana (non a caso specializzato in foto di argomento scientifico) e quelle di Testa (dettagli di mani e di dita, secondo uno schema provocatorio e allusivo a cui l'autore si concede da tempo immemorabile); o la curiosa "incoerenza" delle foto di Maselli (di toni caldi e preziosi come le immagini di certi film di Visconti o di Bolognini) rispetto a quello che è ormai da tempo il suo cinema (spoglio, rigoroso e prevalentemente immerso in atmosfere fredde).

Che altro resta da dire?

Forse, qualcosa a proposito di quella straordinaria fotocamera che è la Polaroid 50x60: una versione "maxi" delle tradizionali macchine Polaroid a sviluppo immediato, che non è mai stata commercializzata (ne esistono al mondo tre soli esemplari, gestiti direttamente dalla società e utilizzati per lo più in occasione di eventi eccezionali).

Ebbene, la Polaroid 50x60 ha portato un contributo determinante a tutte e tre le sezioni della mostra di Roma, dal momento che è stata utilizzata sia per alcune delle fotografie della Collezione Internazionale, che per le riproduzioni dell'affresco di Leonardo, che per il workshop (e quindi per almeno una metà delle opere esposte); e ha finito quindi per diventare la vera protagonista e il vero nucleo di interesse dell'intera iniziativa. Dispiace quindi che la mostra non sia stata impostata tutta ed esclusivamente sulle eccezionali possibilità offerte da questo apparecchio: con il quale, veramente, la Polaroid ha posto le premesse migliori per quell'incontro fra arte e tecnologia che il sottotitolo della mostra stessa auspicava.

(Vita Italiana - Cultura e Scienza, dicembre 1991) [ma 1993]

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