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(Era la seconda metà degli anni Novanta, e dopo Un posto al buio mi vennero chiesti dallo stesso editore dei racconti "gialli" di poche pagine da pubblicare su un quotidiano. Ne scrissi due e nessuno dei due fu accettato. L'ultimo duello rimase inedito, ma anni dopo, spostato in altra città e altra epoca, diventò il nucleo narrativo del romanzo Dissolvenza incrociata, Fògola Editore 2002).

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L'ULTIMO DUELLO

Cammino, in questo pomeriggio d'estate degli anni Ottanta, nella strada principale di una città fantasma.

La strada, in terra battuta, conserva ancora qua e là delle impronte confuse di zoccoli di cavalli e di ruote gommate; e un paio di gatti sdraiati all'ultimo sole d'agosto sollevano indolenti la testa, domandandosi che cosa ci faccia, un altro essere vivo oltre a loro, in quel mondo di morti.

Jailhouse, Sheriff Office, Saloon, non riuscirei neppure più a leggere queste insegne sbiadite se non fosse che le conosco a memoria. E quel manifesto dilavato dal sole? 1.000 $, Wanted: se un bounty-killer si trovasse a passare di qui, si ritenga avvertito. I vetri delle finestre sono quasi tutti a pezzi, le staccionate per legarci i cavalli in gran parte divelte. Le facciate delle case, piene di buchi come un corpo a brandelli, rivelano il polistirolo dipinto di cui sono fatte e i ponteggi che le tengono in piedi, denunciando in modo impietoso la fragilità e la precarietà della finzione cinematografica.

Fra pochi giorni l'intero villaggio western di Cinecittà sarà raso al suolo. La cosa di per sè non è poi tanto strana: i paesaggi fittizi in cui prendono corpo i sogni e le fantasie del cinema sono destinati da sempre a sparire non appena il sogno è finito e serve spazio per costruirne uno nuovo. Ma questa volta è diverso, poiché al posto del villaggio western non sorgerà una nuova scenografia destinata a dar vita a un sogno, ma un gigantesco centro commerciale destinato a ospitare autentici negozi, autentici uffici; e non sarà fatto di polistirolo e di truciolato di legno ma di cemento armato, di acciaio e di cristalli a specchio. La crisi del cinema da un lato e l'aumento del valore delle aree urbane dall'altro hanno infatti indotto il Consiglio di Amministrazione di Cinecittà a vendere una parte dei terreni di pertinenza dei teatri di posa: per l'appunto la zona in cui sorge il villaggio western.

Oltrepasso la facciata della chiesa e salgo i tre scalini sconnessi che danno accesso al saloon, uno dei pochi edifici di cui fosse stato a suo tempo costruito l'interno. Non ho neppure bisogno di spingere i due battenti a bandiera, che pendono inerti dalle loro cerniere, per ritrovarmi all'interno. I raggi del sole illuminano parte del pavimento e del bancone, e rendono ancora più scure le ombre che si addensano agli angoli. Un tavolino, una bottiglia, due sedie, qualche carta da gioco: i pochi arredi rimasti sono coperti di polvere, e la ringhiera della scala che sale al piano di sopra è ridotta in pezzi, così come è rimasta dopo l'ultima scazzottatura che ci è stata girata. Sul pavimento, fra lattine di Coca Cola schiacciate e cocci di vetro infocati dal sole, si vede ancora la chiazza scura del sangue di Paul.

Forse dovrei chiamarlo Paolo Carpintieri, il suo nome vero che però conoscono in pochi; mentre tutto il mondo conosce e rimpiange Paul Carpenter, fascinoso protagonista di innumerevoli western, in gran parte diretti da me, nel corso di quella che fu l'ultima stagione felice del cinema italiano. Sull'onda del successo di Per un pugno di dollari, che Sergio Leone aveva realizzato celandosi dietro allo pseudonimo americaneggiante di Robertson, avevamo preso la formula più esclusiva del cinema americano e l'avevamo rivoltata come un calzino, divertendoci come ragazzi a inventare variazioni sul tema e insaporendo il western con spezie prese da altre ricette, il film politico e quello picaresco, il film comico e quello boccaccesco. Per almeno dieci anni i cosiddetti "spaghetti-western" avevano dominato il mercato europeo, e un paio di essi erano arrivati a scavalcare l'oceano, sfidando il cinema americano nella sua terra d'origine. Paolo, che il caso aveva voluto fosse il protagonista di entrambi, era diventato inopinatamente un divo di fama mondiale, tanto da essere adottato da Hollywood per dei remake made in USA di film italiani che rifacevano sfacciatamente il verso al cinema USA. E poche cose erano state così divertenti come sentirlo recitare i sonetti sconci del Belli agli indiani Navajos della Monument Valley, dialogando con loro in pretto dialetto romanesco ("Aòh, possibile che nun me state a capi'?... Ma ce siete, impuniti, o ce fate?"). Non è facile, a quarant'anni suonati e dopo più di venti di onesta e mediocre carriera, trovarsi improvvisamente sbalzati nel mondo del cinema internazionale. Ma Paolo, aiutato dalla sua natura esuberante e dalla sua innata capacità di rendersi simpatico a tutti, aveva cavalcato bravamente la tigre, abituandosi subito alla vita dei grandi alberghi, degli aerei privati e dei festival, e lasciandosi inseguire dai cronisti, blandire dai produttori e sedurre da alcune delle donne più belle del mondo.

Senonché... Non so voi in che contesto vivete, ma chi vive e lavora nel mondo dello spettacolo dovrebbe sapere quanto ogni cosa sia precaria ed effimera, e se non lo sa tanto peggio per lui. Perché quando grippa il motore devi avere il volante in mano ben saldo, se non vuoi finir fuori strada.

Paolo il volante in mano non ce l'aveva per niente, poiché era stato troppo impegnato a bere il presente fino all'ultima stilla per guardare al futuro. Così, quando verso la metà degli anni settanta la stagione del western all'italiana era finita, improvvisamente come era incominciata, finì fuori strada. Fece dei tentativi, certo: fu un simpatico gangster al di là dell'oceano, poi un poliziotto senza scrupoli in Francia e un sacerdote e un marito infedele in Italia. Ma non risultò mai convincente: il suo volto era troppo legato al poncho, alle Colt alla cintola, al cappello a larghe tese, perché potesse plausibilmente indossare dei panni diversi. E questo spiega il motivo per cui, quando uno dei tanti soprassalti della storia del cinema gli aveva portato fra le mani la sceneggiatura di un nuovo western, non aveva esitato a accettare, ancorché si trattasse inequivocabilmente di una produzione di serie B.

Mi chiamò per dirigerlo, memore delle battaglie che avevamo sostenuto insieme e dello spirito giocoso con cui avevamo sempre affrontato il lavoro. Ma né lui né io ci eravamo resi conto di quanto il tempo, ridistribuendo le carte, avesse modificato le regole del gioco. Nella mia carriera di regista, mi sono spesso trovato a dover gestire delle situazioni difficili, ma devo dire che nel caso in questione la mia flemma abituale era stata sottoposta a un collaudo tremendo. Paolo sapeva che quella era l'ultima chance che il destino gli offriva, ed era stato estremamente nervoso fin dall'inizio delle riprese; e la situazione non aveva fatto che peggiorare col passare dei giorni, poiché diventava sempre più chiaro che i soldi a disposizione non erano sufficienti e che quello che inizialmente poteva essere un onesto sottoprodotto sarebbe risultato alla fine un disastro totale.

Bene o male eravamo comunque riusciti a arrivare alla terza settimana quando sbarcò dalla California Lee Coster, un caratterista di Hollywood che il produttore, nel miraggio di assicurarsi una testa di ponte sul mercato americano, aveva ingaggiato per il ruolo dell'antagonista.

Lee non era cattivo, ma il fatto di avere per la prima volta un ruolo di un certo peso gli aveva dato alla testa. Così aveva portato in Italia, oltre a una mezza dozzina di scagnozzi e di ragazzotte dalle mansioni non del tutto chiare, tutto il bagaglio di stravaganza e di supponenza del grande divo straniero che va a lavorare nel terzomondo, esigendo questo e quell'altro e aggravando la già precaria situazione economica del nostro produttore.

E' inutile che vi dica che tra Paolo e Lee si era stabilita subito un'intesa perfetta, perché avrete già capito che fu vero il contrario. La reciproca antipatia che era nata fin dalla prima giornata si era trasformata ben presto in un odio feroce. Alle prese con le loro liti quotidiane avevo disperato più volte di condurre in porto il lavoro, ogni volta ero riuscito a malapena a rappezzare le cose, e non mi era parso vero di riuscire a arrivare alla fine della settima e ultima settimana del film.

Ci restava da girare solamente la scena in cui Paolo raggiungeva Lee nel saloon e lo affrontava in un duello finale, con il solito barman che metteva in salvo gli specchi e la sciantosa in odore di redenzione che seguiva la scena con la vena giugulare in subbuglio. La sceneggiatura prevedeva che Lee venisse ucciso e che anche Paolo venisse colpito, salvo poi risultare solo ferito e aprire la strada all'happy end di prammatica.

Muovo qualche passo avanti nello stanzone deserto, ed eccomi nel medesimo punto in cui mi trovavo quel giorno. Intorno, il vuoto e il silenzio. Il sole, muovendosi adagio, sta arrivando a lambire la macchia scura per terra.

Ed ecco che avviene qualcosa. La macchia, illuminata dal sole, svanisce e scompare. Il salone si riempie di gente, e c'è Paolo, e c'è il barman con i baffoni e il grembiule, e la sciantosa con le tette di fuori, e i generici vestiti da cow-boy, e poi naturalmente il direttore di fotografia e il truccatore con le cipolle per far piangere l'attrice, e il maestro d'armi e il tecnico degli effetti speciali, e i macchinisti, gli elettricisti, i fonici e insomma tutta la solita gente che compone una troupe.

Anche il silenzio si è riempito di voci, che poi piano piano si chetano, mentre rimbalza da un angolo all'altro una serie di "Pronti?".

"... E tu sei pronto?". "Sì". Queste sono la mia voce e la voce di Paolo, cui seguono in successione veloce le battute del copione di sempre: "Motore!", "Partito!", "Azione!". Vedo la porta che si spalanca nel sole, vedo Lee sulla soglia, vedo Paolo che si volta di scatto. Sento i due spari all'unisono, vedo le canne delle pistole che avvampano della fiamma delle cartucce a salve, vedo cadere i due uomini nel sangue degli effetti speciali. "Bravissimi....stop!". Sento la troupe che prorompe in un applauso sincero. Ma poi vedo mani che rallentano il ritmo, vedo occhi che si fissano in basso, e si sbarrano: perché, mentre Lee si rialza, Paolo rimane a terra, immobile; e ben presto risulta evidente che quella chiazza scura che si allarga intorno al suo corpo non è il sangue degli effetti speciali ma quello suo, quello vero.

Chi aveva sostituito la cartuccia a salve nella pistola di Lee con una pallottola autentica? Come è noto, l'inchiesta durò più di un anno, e non portò a nessun risultato. Sia Lee Coster che il maestro d'armi vennero incriminati per omicidio colposo: il primo fu assolto per insufficienza di prove e il secondo con formula piena, ma non prima che i giornali avessero inzuppato per mesi articoli e copertine in tutte le congetture possibili. Tant'è che a tutt'oggi la morte di Paul Carpenter resta uno dei molti misteri insoluti della cronaca nera romana.

Il raggio dell'ultimo sole ha scavalcato la macchia scura per terra, e lasciandola si è portato dietro il passato: il saloon è di nuovo vuoto, e di nuovo è calato il silenzio. Solo in distanza si sente la sirena affannata di un'autoambulanza; la via Tuscolana, evidentemente, è di nuovo intasata.

Le tenebre incominciano a vincere la loro battaglia, già hanno conquistato tutto il piano di sopra e stanno avanzando compatte verso di me. Preferisco evitare di restare lì dentro nel buio e ritorno all'esterno, dove il crepuscolo mi ha preparato uno di quei cieli di smalto brunito che rendono Roma una mignotta ricca di fascino.

Mi incammino lungo la strada, con il passo stanco e le spalle curve del Gary Cooper di Mezzogiorno di fuoco. Non sto affrontando una banda di fuorilegge, ma dei ricordi sì: e non so quale delle due imprese sia meno gravosa.

I ricordi... Lee Coster era tornato in California, ai suoi ruoli di caratterista efficace; mentre la fine romantica di Paolo sotto le luci dei riflettori, fedelmente ripresa dall'obiettivo e utilizzata contro la mia volontà nel montaggio finale del film, aveva colpito l'immaginazione degli spettatori di tutto il mondo, trasformando un modestissimo prodotto di serie in un clamoroso successo internazionale, e innalzando Paul Carpenter alla dimensione del mito.

Non so quanti giornalisti mi abbiano avvicinato da allora, per avere testimonianze inedite della mia amicizia con Paolo, della sua carriera e della sua vita privata. Con tutti sono stato prodigo di notizie e dettagli, contribuendo in non piccola parte al consolidarsi del mito.

Una sola cosa non ho mai raccontato a nessuno: quell'ultima interminabile notte passata a camminare nei viali di Cinecittà, rischiando di farci scambiare per froci in amore dai poliziotti di ronda, mentre lui mi faceva per l'ennesima volta il racconto, che oramai conoscevo a memoria, della sua esistenza fallita e fittizia. Fittizia come gli anfiteatri, i castelli medioevali e i piroscafi in mezzo ai quali ci conduceva la strada, come le colonne romane e i portali dai quali entravamo e uscivamo: fallita perché il mondo del cinema, che è forse il più falso dei mondi possibili, era stato paradossalmente il solo in cui Paolo aveva trovato l'illusione di una autentica vita.

Ma questa illusione era finita, ormai. Ad entrambi era chiaro che il film che stavamo girando non avrebbe fatto altro che dare il colpo di grazia a una carriera che già agonizzava. E questo, Paolo rifiutò di accettarlo.

Dio mi è testimone che feci, quella notte, tutto ciò che potevo per contrastare la sua decisione. E fu solo quando le prime luci dell'alba incominciarono a affiorare al di là della via Tuscolana che per affetto e stanchezza mi decisi a fare ciò che lui mi chiedeva.

Modificammo quella notte, insieme, la sceneggiatura del nostro ultimo film: introducemmo un personaggio nuovo, quello di un regista che è talmente amico di un attore in declino da aiutarlo a morire. Facemmo l'ipotesi che questo regista convocasse il giorno dopo, alla fine delle riprese, il maestro d'armi, e lo tenesse impegnato in un lungo colloquio per permettere all'attore di entrare nel suo camerino e sostituire una cartuccia a salve con una pallottola vera destinata ad ucciderlo.

Innumerevoli volte, nel corso di questi anni, mi sono interrogato sulla mia scelta di allora, domandandomi se e in quale modo avrei potuto fermare il destino. Ma adesso, mentre arrivo al confine del villaggio western e mi volto a guardare quest'angolo di Cinecittà, questo luogo che ha fatto rivivere i giorni epici della grande frontiera e che fra poco lascerà il posto a una realtà molto più banale e volgare, sono quasi convinto che Paolo abbia avuto ragione: forse è proprio meglio morire da eroi nel proprio mondo, anche se si tratta di un mondo fittizio e destinato domani a scomparire lui stesso, che non lasciarsi morire giorno per giorno, nel grigiore di una esistenza che non ti appartiene, e che non ha luce né gloria.

Giro sui tacchi e mi avvio verso l'ingresso principale. Domani, forse, arriveranno le ruspe.

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