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IL GRAN GUAIO Dl ESSERE TROPPO INTELLIGENTI

Vi avevo promesso, la volta scorsa, di parlarvi di La stirpe dei dannati, un pregevole film inglese uscito quasi clandestinamente questa estate e che vi consiglio di inseguire strenuamente nei cinema di periferia o di aspettare al varco nei cinema di paese. Ma rimandiamo ancora, volete? Mi sembra più urgente, oggi, salvare da una mortale delusione quelli tra voi che ancora non hanno visto Agente Lemmy Caution missione Alphaville.

Rifiutate tenacemente, per vedere questo film, di separarvi da un vostro fiammante o gualcito biglietto da mille lire; un film del genere è tutt'al più sopportabile nella pretenziosa e rarefatta aria di un sala di Cineclub, dove il prezzo del biglietto è pressoché nullo e il pensiero dei soldi spesi non vi indurrà quindi a imprecare a voce alta durante lo spettacolo; inoltre, in questa sede, voi avrete probabilmente (gratis) lo spasso di sentire un sussiegoso studente o un nero gesuita spiegarvi perché e percome Alphaville sia opera di "disperata ironia", di "profonda coscienza tecnologica", di "trascendente spiritualità". Spesso sono, queste presentazioni fatte di parole presuntuose e contorte come cavaturaccioli, la parte più spassosa dello spettacolo.

Al fatto. Siamo ad Alphaville, una ipotetica città di un ipotetico pianeta in un ipotetico futuro. La città è sotto il dominio di un colossale cervello elettronico, un IBM ingigantito come certi insetti dei film di fantascienza di terza serie. Uomini come automi, sentimenti schiacciati, razionalizzati e quindi uccisi. Oggi ad Alphaville, come nel nostro futuro, non muove foglia che il centro meccanografico non voglia.

Andiamo avanti. L'agente Lemmy Caution (i'ombra di Peter Cheyney imprecherà invano nella tomba) deve distruggere il cervello elettronico (chissà perché, pol. Quando saremo a quel punto, tutto l'universo sarà una gigantesca Alphaville e più nessuno potrà più mandare nessuno a porvi rimedio). In breve: botte, sparatorie, eccetera. E alla fine, mentre il cervello, e tutta la città con lui, si disgrega, i'agente fugge, con una graziosa ex-automa opinabilmente recuperata al pianto e all'amore.

Siamo, come vedete, nella più tradizionale, ma anche nella più pura e affascinante fantascienza, quella di Orwell, di Bradbury, di Sheckley. Le astronavi ed i mostri possono tutt'al più divertirmi, ma sa solo il Cielo che brividi mi danno storie come questa, in cui troviamo, ingigantite dal paradosso, le nostre attuali follie. Non possiamo, questa volta, trincerarci, da quei perfetti egoisti che siamo, dietro al comodo pensiero che queste rogne se le sbrigheranno, se mai, i nostri pronipoti; perché quegli automi che vivono in Alphaville sono io e siete voi, quando corriamo e ci disperiamo e lavoriamo e guadagniamo soldi e ci dimentichiamo di essere dei piccoli, patetici granellini di sabbia in una immensa spiaggia su cui, ci piaccia o no, l'onda continuerà a fluire placida per I'eternità. Mah. Un tema affascinante, dunque. E' per questo che non perdono a Godard di averlo annegato nella noia.

Ho in uggia, fin dal suo nascere, la "nouvelle vague", un cinema che è la negazione del cinema, che ci riporta indietro di trent'anni, ai funambolismi estetizzanti di Bunuel e di Cocteau. E Godard è, fra i pontefici della "nouvelle vague", il Pontifex Maximus: dirige i film come se eseguisse un teorema, guardandosi nello specchio compiaciuto e sorpreso della propria bravura e della propria intelligenza. Non mi stuferò mai di gridare, dall'alto di un podio o dal fondo di una tomba, che il cinema, come tutte le arti, deve suscitare delle emozioni, che è diretto al cuore e non al cervello, e che quindi va fatto col cuore e non col cervello. Godard, invece, ha diretto (come sempre) il suo film proprio come avrebbe potuto dirigerlo uno dei gelidi e intelligentissimi automi di Alphavillle. Maledizione. Proprio lui doveva salire su un pulpito e mettersi a parlare dell'intelligenza come morte del sentimento, lui che è il più disumano, il più intelligente, il più razionale, il meno sentimentale di tutti i registi.

I personaggi, in Alphaville, nuotano nell'aria con studiata lentezza, le pause ed i silenzi vi ricordano ad ogni fotogramma che siete un uomo e che dovete riflettere, la vicenda si dipana nella squinternata, rarefatta atmosfera dei romanzi di Kafka senza averne l'angosciata originalità. Godard non esita di fronte a niente, non si rifiuta neppure alla civetteria degli spezzoni stampati in negativo, il pane più raffermo, più bolso, di tutte le avanguardie cinematografiche. Col risultato che tutta l'affascinante e agghiacciante plausibilità del tema proposto, su questo palcoscenico di teatro dl marionette va a carte quarantotto.

Un Eddie Constantine ridotto a personaggio kafkiano, pensate, attonito e schiacciato da questo cinema di concetto così insolito per lui; un cervello che parla con la voce roca dei nostri adolescenti dopo ore di inneggiamenti a Rita Pavone o a Bobby Solo; una frase ricorrente ("Io sto benissimo grazie prego") che potrebbe essere agghiacciante nella sua reiterata banalità e che invece riesce solo a far scaturire grasse manifestazioni di ilarità nel pubblico.

Ho finito. All'uscita del cinema mi aspettava, sopra la collina torinese, lo spettacolo di un cielo stellato di fine estate. Mi domandai, lo confesso, se Godard sarebbe stato capace, come feci io, di incamminarsi fra tutti quei punti luminosi e di perdere la strada.

("Selene", novembre 1965)

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