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FASCINO DELL'ART-DECO

Sarebbe interessante provare a fermare 100 persone per la strada e domandare loro a bruciapelo: "Chi era Brunelleschi?". A parte gli inevitabili "Non so", è prevedibile che la quasi totalità degli intervistati risponderebbero "Un architetto del Rinascimento", o qualcosa del genere.

E se chiedessimo invece: "Chi era Schmied ?" ? Aumenterebbero probabilmente i "Non so"; ma le risposte effettive si aggirerebbero quasi totalmente intorno a "Un cancelliere tedesco degli anni 70-80", trascurando una differenza di grafia che il fonema sarebbe sufficiente a far passare inosservato.

In nessuno dei due casi, probabilmente, sarebbero in molti a rispondere "Un illustratore di libri della prima metà del secolo": a riprova di una tuttora diffusa "sindrome d'autore" da parte della cultura italiana, che relega l'illustrazione del libro fra le arti cosiddette "minori", in buona compagnia della grafica successiva al 6OO, della rilegatura, degli ex-libris, dei fumetti, del cinema e di altre affascinanti manifestazioni della creatività umana (fra cui, fino a non molto tempo fa, rientravano pressoché in blocco tutte le avanguardie del 900).

Ebbene, per cominciare a diradare un po' le tenebre che avvolgono tuttora, per molti, questa affascinante contrada, giunge in buon punto l'iniziativa della Guido Tamoni Editore: una piccola, benemerita casa editrice di Schio (ah, questa provincia italiana, così poco nota e pure così ricca di sorprese e di fermenti!), che dà imprevedibilmente alle stampe due splendidi volumi, dedicati rispettivamente a Umberto Brunelleschi (Montemurlo di Pistoia 1879 - Parigi 1949) e a François Louis Schmied (Ginevra 1873 - Rabat 1941).

I due volumi, che si intitolano lapidariamente Brunelleschi e Schmied, cancellano di colpo un "gap" editoriale non indifferente, dal momento che la saggistica sugli adornatori del libro (supportata da un adeguato progetto editoriale) è largamente diffusa all'estero (quanto meno in Francia, in Inghilterra e negli Stati Uniti), mentre in Italia bisogna risalire, per trovare una qualche iniziativa organica in questa direzione, ai volumi pubbblicati da Cesare Ratta nel corso degli Anni Venti.

Abbiamo parlato di "adeguato progetto editoriale". Volendo fare qualsiasi tipo di discorso - storico, critico o divulgativo- su artisti che hanno operato nel territorio delle arti visive, è necessario infatti che questo discorso sia supportato da una grande profusione di riproduzioni a colori , che rendano il più possibile giustizia alle opere originali. Questo significa volumi ricchi e inevitabilmente costosi: dei veri e propri "libri d'arte" , secondo una tradizione avviata , quasi mezzo secolo fa, da Albert Skira, e che finora, in Italia, erano stati riservati, sia dall'editoria pubblica che da quella privata, alle arti maggiori. (Quale Banca, quale Compagnia di Assicurazioni, quale Ente non ha ancora "sponsorizzato", almeno una volta, una strenna su carta patinata, dedicata a questo o a quel tesoro dell'arte italiana?).

Orbene, dal punto di vista tipografico-editoriale, i due volumi su Schmied e Brunelleschi non hanno nulla da invidiare all'editoria "d'arte" di cui stiamo parlando, mentre surclassano nettamente l'editoria loro omologa dei paesi di lingua anglosassone; il loro difetto, caso mai, è di essere fin troppo "belli", per dei libri che vogliono anche essere dei "reference book", e cioè dei libri da consultare, oltre che da guardare con grande godimento. (E visto che siamo in argomento: dove sono gli indici alfabetici delle opere e dei nomi citati, dei quali nessun "reference book" che si rispetti può fare a meno?).

Il godimento per gli occhi, in ogni caso, non manca: poiché sia Umberto Brunelleschi che François-Louis Schmied furono, ciascuno a suo modo, dei maestri pressoché ineguagliati di quel periodo magico per l'illustrazione del libro (e non solo per quella) che va dalla fine del secolo scorso alla fine degli Anni Trenta: inglobando tutta una serie di rivoluzioni culturali, grafiche ed estetiche che dal movimento preraffaellita conduce, attraverso l'Art Nouveau e la secessione viennese (e in parallelo con tutte le avanguardie pittoriche del Novecento), fino alla stagione più alta dell'Art Déco.

Ma il discorso è troppo ampio per andare al di là di questi sommari cenni introduttivi. Ci limiteremo quindi, prima di tornare ai nostri due protagonisti, a rinviare chi desideri approfondire l'argomento ad un paio di volumi - in qualche modo complementari fra di loro - pubblicati in Italia negli ultimi anni: L'illustrazione Art Nouveau, di Giovanni Fanelli ed Ezio Godoli (Laterza), e Il pochoir Art Déco, di Giuliano Ercoli (Giunti).

Che cosa accomuna e che cosa separa Schmied e Brunelleschi? Li accomuna sicuramente il clima culturale della città in cui vissero ed operarono, la Parigi degli Anni Dieci-Venti-Trenta, con quell'incredibile concentrarsi e intersecarsi di fermenti e di "mode" che la trasformò, per quasi mezzo secolo, nel crogiuolo culturale più vivo, vitale e stimolante dell'Europa e del mondo: un autentico "centro cosmico della creatività", dotato di una sua forza magnetica capace non solo di assorbire, ma anche di condizionare, tutto ciò che di fecondo nasceva in quel lasso di tempo negli altri paesi d'Europa (e basti citare, alla rinfusa, Diaghilev e i balletti russi, Proust e la "Recherche', Modigliani e Matisse, Picasso e "Les demoiselle d'Avignon", Marinetti e il Futurismo, il "Salon des arts décoratives", Hemingway e Sartre, il movimento Dadà e quello surrealista).

Un'unica matrice culturale, dunque? Sì e no. Anzitutto, contribuiscono a differenziare i due personaggi, l'uno dall'altro, le rispettive nazionalità: poiché Brunelleschi - maledetto toscano - porta nei suoi disegni una levità, un'allegria e una "joie de vivre" tipicamente latine, mentre Schmied - svizzero di origine tedesca, anche se nato a Ginevra - non riesce a liberarsi nelle sue opere (che pure intellettualmente sopravanzano di parecchie lunghezze quelle del collega italiano) di una freddezza e di un rigore, di matrice calvinista, prettamente teutonici.

Inoltre, bisogna considerare che Brunelleschi ha dato il meglio di sè nel ventennio 1910-1930, e Schmied nel ventennio 1920-1940: il primo quindi introduce, e il secondo in qualche modo conclude, l'avventura déco. Infine, fra l'uno e l'altro, è passata una guerra devastante, che ha profondamente segnato e trasformato l'Europa intera, e quindi anche Parigi e la sua cultura.

Il mondo di Brunelleschi, dunque, è ancora a pieno titolo il mondo della belle époque, del Ballo Excelsior, delle "turqueries", delle grandi feste in maschera e dell'amore per tutto ciò che giungeva dall'Oriente: un mondo frivolo, edonista e spumeggiante, che forse si rendeva più o meno consciamente conto di essere sull'orlo di un abisso e si stordiva nell'attesa dell'Apocalisse prossima ventura.

Qualcosa di non molto dissimile doveva essere stata la Francia del XVIII secolo; ed è emblematica la frequenza con cui il gusto dell'epoca si volge, oltre che all'Oriente, proprio al 700 francese, ed al gusto rococò che ne segnò il culmine capriccioso ed effimero. Di questa contaminazione, Brunelleschi cavalca, o forse guida, la lunga onda: così che, nella maggior parte delle sue illustrazioni per libri e dei suoi "pochoir" (grandi fotoincisioni al tratto, colorate a mano con la tecnica dei mascherini ritagliati nel cartone) assistiamo a un delizioso "rondeau" di damine incipriate e di cavalieri serventi, di mandarini cinesi e di maschere della Commedia dell'Arte, su un palcoscenico al di fuori del tempo e dello spazio (Parigi, Pechino, Venezia?) fatto di gondole, di pergolati e di notti di plenilunio.

Non si deve pensare, con questo, che il segno grafico di Brunelleschi sia datato e obsoleto: la sua straordinaria bravura, al contrario, consiste proprio nel saper riproporre un repertorio tutto sommato così polveroso con una modernità del tratto e un virtuosismo cromatico che ne fanno uno dei più cattivanti ma anche dei più significativi momenti della prima Art Déco: quella che nasceva, per progressiva stilizzazione, dai riccioli e dalle volute dell'Art Nouveau.

Nel saggio di Giuliano Ercoli che apre il libro dedicato a Brunelleschi, si trovano ampie testimonianze di tutto ciò che si è detto: e l'ampio corredo iconografico costituisce veramente una festa per gli occhi, accompagnando il lettore attraverso i punti salienti della parabola creativa dell'artista tosco-parigino: dai libri (lussuosi) di fiabe per bambini (Contes du temps jadis) (1912) ai libri per adulti illustrati "à pochoir" (Le malheureux petit voyage, Phili, Les aventures du roi Pausole) (1921-1930); dalla collaborazione a un gran numero di periodici italiani e francesi (dal Corriere dei piccoli a La lettura, da Fémina al sofisticatissimo La guirlande), allo straordinario Album di grandi "pochoir" "Les masques et les personnages de la Comédie Italienne" (1914), in cui le Maschere della nostra Commedia dell'Arte (personaggi popolari per eccellenza) vengono sublimate e riproposte in una chiave di levità e di aristocratica eleganza rimasta a tutt'oggi ineguagliata.

Poi viene la guerra del 1915-18, e spazza via tutto un mondo: e si dà il caso che si tratti per l'appunto del mondo di Brunelleschi. Anche se per più di un decennio l'artista riesce a "tenere la posizione", è chiaro che, dall'inizio degli anni Trenta, egli imbocca inesorabilmente il viale del tramonto. Ne fanno fede le sempre più stanche variazioni su temi erotico-galanti che del 7OO hanno ancora, sovente, i costumi e gli ambienti, ma hanno perso tutto lo spirito e, se vogliamo chiamarle così, le "bollicine".

E veniamo al volume dedicato allo Schmied, che sul piano del lusso editoriale surclassa il suo stesso fratello, con una tiratura limitata di 1000 copie "trade" e cinquantasei copie "de luxe", ognuna delle quali è accompagnata da una incisione originale dell'artista colorata al "pochoir".

Non so se ciò sia voluto, ma certo è che questa scelta elitaria e un tantino snobistica è perfettamente coerente con l'autore affrontato, i cui libri non solo erano stampati in un numero di copie estremamente ridotto - da un massimo di 1030 (la Salammbò di Flaubert,1923) fino a quello che è il suo libro più raro, Histoire de la princesse Boudour (1926), stampato in soli 2O (venti!) esemplari numerati - ma rappresentavano dei veri e propri "objets d'art", spesso curati dall'artista fin nei minimi particolari: dall' equilibrio dell'impaginazione alle ornamentazioni, dall'ideazione delle illustrazioni alla loro incisione su blocchi xilografici, dalla stampa su torchio a mano alla rilegatura.

Tutto ciò rende subito chiaro che, per quanto riguarda Schmied, la qualifica di "illustratore" risulta fortemente riduttiva; egli stesso, del resto, amava definirsi "architetto del libro", ed era molto più interessato al libro come "unicum" che non alle sue "figure", secondo una tradizione che, attraverso William Morris, lo ricollega direttamente agli autori dei codici miniati del Rinascimento.

A cercare di capire questa personalità così intrigante e così infinitamente più complessa di quella di Brunelleschi, ci aiuta l'interessante e fin troppo dotto saggio introduttivo di Mauro Nasti, al quale l'attività primaria di professore universitario di logica matematica fornisce sicuramente, a sua volta, un valido aiuto per penetrare i contenuti dell'universo schmiediano. Ma per non intimidire i potenziali lettori, ci limiteremo qui a trattare l'aspetto grafico dell'artista svizzero, rinviando al saggio e al volume in questione eventuali interlocutori desiderosi di approfondire l'argomento.

Dove si colloca dunque lo Schmied, all'interno del movimento déco? Si colloca in una posizione talmente avanzata da rendere discutibile addirittura la sua collocazione in quell'ambito. E tuttavia, non c'è dubbio che il rigore geometrico delle sue composizioni (soprattutto dei paesaggi e delle architetture) appartenga proprio al déco: ma ad un déco talmente rarefatto ed essenziale da apparentarlo, più che alla grazia cattivante di un Brunelleschi, al rigore degli astrattisti e alla razionalità del Bauhaus. E non mancano, qua e là, dei rinvii alla decorazione totemica dei pellirosse d'America, che non è facile capire come siano arrivati nella Parigi di allora (forse ancora un'eredità della "tourné" di Buffalo Bill?).

Tanto per esaurire il gioco delle parentele, ci guarderemo bene dal ripetere l'errore che fece un amico ed estimatore di Schmied, che lo mise in guardia contro sue presunte convergenze con l'allora imperante moda cubista, e suscitò una sua risposta indignata (sia la lettera dell'amico che la risposta di Schmied sono riprodotte in fac-simile nel volume; e se non fossero sufficienti a chiarire i rispettivi punti di vista ci pensa Nasti ad analizzare puntualmente le ragioni dell'equivoco). Ma ci piacerebbe quanto meno azzardare una ascendenza futurista, che è evidentissima in alcune composizioni, come quella delle due aquile in volo ed in lotta, facente parte anch'essa delle illustrazioni della Princesse Boudour. La struttura diagonale dell'immagine, il prolungamento "fuori campo" delle ali dei due volatili, e la scomposizione dei corpi degli stessi in fasce parallele fra loro, tutto contribuisce a dare, in termini geometrici, quel senso di velocità , o meglio ancora di velocità del movimento che in fotografia si ottiene con la multipla esposizione e che faceva parte integrante del credo futurista.

Non c'è dubbio, insomma, che, se Brunelleschi è la gioia, Schmied è l'intelletto. Il che può piacere o non piacere, visto che i suoi libri sono sempre intriganti e stupendi ma spesso raggelanti. Ma, se anche si volessero prendere le distanze dall'intellettuale, sarà ben difficile non ammirare incondizionatamente l'artigiano (quell'artigiano nel senso più nobile del termine che lui ci teneva tanto ad essere), e l'incredibile virtuosismo con cui riesce a trarre da una tecnica "rigida" come la xilografia delle così variegate sfumature cromatiche (si veda tra i molti esempi possibili lo straordinario "arcobaleno sul mare" che è una delle ultime illustrazioni del volume).

Tutto ciò che si è detto, porta a concludere che François-Louis Schmied non è stato semplicemente un bravissimo illustratore di libri ma un autentico protagonista della cultura del suo tempo. Un protagonista che ben meriterebbe il riconoscimento "ufficiale" di una Mostra a lui dedicata, al pari di quanto avviene da tempo per altri artisti a lui contemporanei (diciamo - a puro titolo di esempio - un Dufy o un Matisse).

E invece, di Schmied, cominciamo solo adesso, sì e no, a conoscere l'esistenza. Come solo adesso - lo si è già detto all'inizio - cominciamo a capire che l'illustrazione non è affatto un'arte minore ma può e deve essere allineata, a pari livello di dignità, con tutte le altre arti figurative.

Iniziative editoriali come quella di cui vi abbiamo parlato contribuiscono certamente a far sì che ciò avvenga; e noi auspichiamo che Umberto Brunelleschi e François-Louis Schmied siano solo i primi due nomi di una lista destinata ad allungarsi, per la gioia degli occhi e dell'intelletto di tutti coloro che amano la bellezza e l'ingegno.

(Vita Italiana - Cultura e Scienza, gennaio-marzo 1992) [ma 1994])

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