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LA SENSIBILITA' "CINEMATOGRAFICA" DI UN ARTISTA DEL SEICENTO

Finito il 1992.

Passato il quarto centenario della nascita di Jacques Callot (1592-1635), artista di area francese (lorenese) ma con molti debiti ed ascendenze artistiche in Italia.

Conclusosi, sia in Italia che in Francia, il clangore delle celebrazioni: prima fra tutte la splendida mostra monografica Le incisioni di J.C. nelle collezioni italiane, allestita dall'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e dall'Istituto Nazionale della Grafica, e che ha riscosso un grande e meritato successo a Roma, Pisa e Napoli.

Riflettori spenti.

Ebbene, a riflettori spenti, possiamo recare anche noi il nostro piccolo tributo ad un artista i cui meriti trascendono la Storia dell'Incisione per entrare nella Storia della Cultura tout court.

Chi sia stato e che cosa abbia fatto Jacques Callot, lo si può trovare agevolmente, oltre che in quasiasi libro dedicato alle "stampe d'arte", anche in qualsiasi enciclopedia. Per i più pigri e i più smemorati, basti ricordare che egli eccelse sia nell'uso del bulino che (soprattutto) in quello dell'acquaforte, innovando quest'ultima anche sul piano tecnico e scoprendone nuove possibilità; che venne giovanissimo in Italia, prima a Roma e poi nella Firenze di Ferdinando e di Cosimo II dei Medici; e che in Italia crebbe alla scuola dei più noti artisti dell'epoca, dal Thomassin al Tempesta, dal Cantagallina al Parigi.

Lasciò l'Italia nel 1921, alla morte di Cosimo II, non ancora trentenne ma già nel pieno della sua maturità di artista. Ritornato in Lorena, la sua produzione proseguì instancabile, fino a culminare nella suite delle diciotto Grandi miserie della guerra e nella seconda versione delle Tentazioni di Sant'Antonio, direttamente ispirate dalla guerra del 1933 tra Francia e Lorena, di cui egli fu, negli ultimissimi anni della sua breve vita, sconvolto e sconvolgente testimone oculare.

E tanto basti, per i pigri e gli smemorati; mentre, per gli amanti delle statistiche e delle cifre, ricorderemo che Callot, nel corso di poco più di vent'anni di attività, ha inciso l'incredibile numero di oltre 1400 lastre (qualcosa come 60/70 lastre all'anno); ben 27O delle quali presenti nella mostra di cui si è detto, e riprodotte sul bel catalogo edito da Mazzotta. Ad esso rinviamo chiunque voglia approfondire degnamente l'autore; poiché esso contiene, al di là delle riproduzioni, alcuni saggi di grande interesse, dovuti a una schiera di autorevoli studiosi italiani e francesi, coordinati dal recentemente scomparso Paul Bédarida: saggi che analizzano con appassionata competenza i diversi aspetti dell'opera dell'artista lorenese.

Detto tutto questo, che cosa rimane da dire sull'argomento? Esiste qualche frase che ancora non sia stata scritta, qualche prospettiva che non sia stata analizzata, qualche ipotesi che non sia stata fatta, nell'uno o nell'altro degli innumerevoli articoli che si sono susseguiti e inseguiti, nel corso del 1992, su tutti i giornali?

Forse no. O forse sì? Con un pizzico di provocazione, e sperando di non suscitare l'indignazione di nessuno, vorrei pormi (e porvi) una domanda che non mi risulta nessuno si sia posto finora: se e e fino a che punto si possa considerare l'incisore Callot, autore di immagini statiche, come un progenitore di quel mezzo di realizzazione di immagini in movimento che è il cinema.

Stiamo parlando di linguaggio o di contenuti?

Di tutti e due. E incominciamo dal primo.

E' stata già evidenziata più volte la struttura teatrale di molte incisioni di Callot, o, se preferite, il suo modo teatrale di gestire lo spazio. Molto spesso (troppo spesso perché lo si possa considerare un caso, anziché una scelta precisa), il soggetto vero e proprio dell'incisione di Callot, il suo centro di attenzione, non si colloca in primo piano ma in profondità, come su un palcoscenico situato a qualche distanza da chi guarda. E questa sensazione viene accentuata dalla presenza in primo piano (o "di quinta", come si dice in gergo teatrale e cinematografico), di figurine di personaggi girati di spalle, che sono nello stesso tempo spettatori (poiché osservano ciò che avviene davanti a loro) e attori (poiché fanno parte dell'incisione nella stessa misura di ciò che stanno guardando).

E' importante sottolineare che Callot fa ricorso a questo gioco prospettico non soltanto quando esso è in qualche modo giustificato dall'ampiezza e dalla coralità della scena rappresentata (che siano i movimenti di truppe dell'Assedio di Breda, le coreografie festaiole del Ventaglio o la moltitudine di contadini della Fiera dell'Impruneta) ma anche quando il polo di attenzione è una singola figura umana, come nel Martirio di San Sebastiano: ove, contrariamente a qualsiasi logica accademica, la figura del Santo viene retrocessa nel centro di un ideale palcoscenico, senza nulla perdere (grazie alla sapiente gestione degli spazi) della sua forza drammatica.

Ora, facciamo un passo avanti di circa tre secoli, e sostituiamo al teatro il suo più legittimo successore ed erede, e cioè il cinema.

L'espediente di linguaggio cui fa ricorso Callot, e che consiste nel far identificare lo spettatore con uno o con più attori (io, spettatore, guardo un personaggio di spalle che a sua volta sta guardando qualcosa, e in qualche modo, poiché vedo anche ciò che lui sta vedendo, mi identifico con lui) è stato utilizzato più volte anche nel cinema: soprattutto a partire dal I941, anno in cui l'operatore Gregg Toland usò per la prima volta, nel Citizen Kane di Orson Welles, gli obiettivi "panfocus", che consentivano di mettere a fuoco sia i primissimi piani "di quinta" che i campi lunghi. E ancora più spesso è stato "smontato" e riproposto in termini dinamici, grazie al montaggio cinematografico: che consente di separare (e nello stesso tempo di collegare strettamente fra di loro) i due momenti simultanei del vedere e dell'essere visti, mostrando, immediatamente dopo la faccia di chi sta guardando ("campo"), la scena che lui sta vedendo ("controcampo" " in soggettiva").

Callot si rivela quindi il legittimo antesignano di un meccanismo linguistico che, passando attraverso il teatro, è diventato parte integrante del linguaggio del film.

E veniamo ai contenuti.

Come abbiamo già detto, in Callot, l'identificazione fra attori e spettatori ritorna troppo frequentemente per non rispondere a un disegno preciso: che, al di là del fatto linguistico, si può identificare con la coscienza, da parte dell'artista, di rappresentare una specie di sterminata "commedia umana", fatta di accadimenti reali (sia tristi che lieti: la guerra, le feste, i supplizi, i mercati, la vita di tutti i giorni) e di esseri umani non meno reali (i nobili, i mendicanti, i soldati, le maschere della commedia dell'arte).

Siamo di fronte, in sostanza, ad una equazione (Teatro = Rappresentazione della realtà), che a noi moderni sembra del tutto ovvia, considerando la grande importanza che il teatro ha avuto fin dall'antichità e che aveva ancora ai tempi di Callot (il quale, non dimentichiamolo, appartiene allo stesso secolo di Molière).

Questa equazione, tuttavia, non era ovvia per niente se riferita al mezzo artistico che Callot utilizzava, e che era quello dell'incisione: un mezzo che, a cavallo fra il cinquecento e il seicento, era ancora utilizzato per riprodurre e diffondere una iconografia quasi esclusivamente agiografica (nella duplice direzione della storia e della religione); o, nel più progressista dei casi, allegorica e mitologica.

Solo Pietro Bruegel, fino allora, aveva spalancato con una certa frequenza le porte delle arti figurative sulla vita di tutti i giorni; ma Bruegel era essenzialmente un pittore, anche se molti dei suoi quadri erano stati incisi e trasformati in stampe. E toccò quindi proprio a Callot irrompere in prima persona in un mondo sostanzialmente statico (che pure aveva già avuto i suoi Durer e i suoi Luca di Leyda), scardinandone gli orizzonti.

Pur praticando Martiri e Santi, egli affiancò ad essi una folla di personaggi che ben poco si erano visti, fino allora, nella Storia dell'Incisione: i poveri, i diseredati, i contadini, i mendicanti, i soldati, e la gente comune. Tutta gente, come si suol dire, "presa dalla strada".

Questa frase non vi ricorda nulla? A me ricorda una situazione analoga, che appartiene alla storia del cinema italiano: il quale, per almeno quindici anni, tra l'avvento del sonoro e il 1945, si trastullò proprio con l'agiografia storica e religiosa, nonché con un mondo talmente astratto ed avulso dalla realtà da diventare un vero e proprio "mondo simbolico". Mondo che andò in frantumi quando in esso irruppero, con tutta la loro dolente carica di umanità, i Ladri di biciclette, i camionisti di Ossessione e i partigiani di Roma città aperta e di Paisà .

La forza deflagrante del neorealismo nella Storia del Cinema mondiale non è molto diversa da quella che ebbe Callot nella Storia dell'Incisione: senza di essi, in entrambi i casi, tutto ciò che è venuto dopo non sarebbe venuto, o comunque non sarebbe stato uguale a quello che è stato.

Abbiamo citato poc'anzi le opere di tre "padri del neorealismo". Ora, se vogliamo portare fino in fondo il nostro gioco delle parentele, ci possiamo domandare quale dei tre sia più vicino a Callot. Lo scaltro e pietistico De Sica, l'asciutto e rigoroso Rossellini, o il colto e melodrammatico Visconti?

Forse, un po' tutti e tre. Ma, per cultura e per gusto figurativo, è probabile che la parentela più stretta sia quella che c'è fra Jacques Callot e Luchino Visconti.

Quel Visconti che si mosse con pari disinvoltura nei saloni dei palazzi dell'aristocrazia, nei villaggi dei pescatori siciliani e nella periferia metropolitana degli immigrati meridionali: così come il suo ascendente seicentesco fu di volta in volta il cortigiano che celebrava i fasti della corte presso la quale viveva (La guerra d'amore, Il maggio a Xeuilley, i ritratti di Francesco dei Medici, di Cosimo II e del Principe di Phalsbourg), e l'attento e socialmente severo osservatore della povera gente (I gobbi, I baroni, I bohémiens).

Quel Visconti che fu dotato di una cultura visiva (e non solo visiva) che spesso trasformò le scene dei suoi film in autentici "tableaux vivants": con un'attenzione all'immagine, alla sua struttura ed alla sua estetica che non ebbe in dote nessun altro autore del cinema neorealistico, e che invece ritroviamo nella maggior parte delle composizioni grafiche di Callot.

Quel Visconti, cui la conoscenza non solo della Storia ma dei suoi meccanismi e delle sue leggi permise di orchestrare le grandi scene di massa di Senso e de Il gattopardo con la stessa eleganza visuale e lo stesso senso della misura delle battaglie del Callot, evitando la magniloquenza e la pacchianeria di un Cecil B. De Mille (cui si possono riaccostare, caso mai, le incisioni di battaglie di un pur validissimo artigiano come Antonio Tempesta).

Il gioco delle citazioni e dei rinvii potrebbe continuare a lungo. Potremmo dire ad esempio che in moltissimi film di Fellini si ravvisano i carri carnascialeschi del Combattimento alla barriera, che é molto probabile che Scola si sia ispirato ai Balli di Sfessania per Il mondo nuovo, ed ai Bohémiens per Il viaggio di Capitan Fracassa. E così via.

Ma questo è un gioco a cui chiunque può giocare da solo, una volta che ne siano state stabilite le regole. Le quali regole, credo, si possono riassumere così: la storia dell'espressione artistica è un unico fiume, talvolta tranquillo e talvolta tumultuoso, lungo il quale procede la storia dell'essere umano. Ed è impresa non sempre facile, ma sempre affascinante, cercare di identificare, lungo il corso di questo fiume, l'intersecarsi delle varie correnti.

Oggi, forse, ne abbiamo identificata una: una corrente che, a tre secoli di distanza, unisce le figurine immobili di un incisore del seicento alle immagini in movimento del cinematografo; passando molto probabilmente, oltre che attraverso il teatro, attraverso i vetrini colorati delle Lanterne Magiche dei nostri nonni.

(Vita Italiana - Cultura e Scienza, aprile-giugno 1992 [ma 1994])

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