Lo scrittore --> Cinema, fumetti e libri: le strade del fantastico

"Nel nostro mondo industriale... è confortante incontrare un plutocrate che, senza pudori, ostenta lo splendore dei suoi miliardi, e se li tiene bene stretti, determinato a non farne parte con nessuno, e disprezza i poveracci che non sono stati capaci di fare quello che ha fatto lui. Una carogna, un maledetto, un mostro, non c'è dubbio. Però un capitalista di carattere, finalmente. Che sarà odiato sì dai nullatenenti, in fondo però rispettato molto più dei colleghi pusillanimi e camaleonti".

Un inizio provocatorio e polemico, fuori luogo e fuori tema? Neanche per sogno: queste parole sono state scritte nel lontano 1968 da Dino Buzzati, nell'introduzione a Vita e dollari di Paperon de' Paperoni, un libro storico per almeno tre ragioni. Primo, perché è il primo Oscar Mondadori a fumetti che sia mai stato pubblicato. Secondo, perché in copertina c'è scritto "Walt Disney" ma nell'interno, se pure a denti stretti, si ammette per la prima volta l'esistenza di un certo Carl Barks, che ormai tutti sanno essere il vero autore delle grandi storie di Paperino. Terzo, perché l'introduzione di Buzzati segna un ulteriore importante passo avanti verso lo sdoganamento del fumetto a livello culturale, dopo la nascita di "Linus". Ci si erano già messi, nel primo numero di quella rivista, intellettuali come Elio Vittorini, Umberto Eco e Oreste Del Buono; ma al buon paterfamilias borghese della metà degli anni Sessanta questi nomi erano molto meno noti di quello di Dino Buzzati, non solo scrittore di vaglia ma giornalista così spesso apprezzato sulle colonne del "Corriere della sera" ("Vuoi vedere che se lo dice anche lui quelle storie a fumetti proprio spazzatura non devono essere?").

La rinascita del fumetto si intreccia dunque con la storia di Buzzati e con la mia personale. Cosa c'entro io? C'entro, c'entro. Mi è stato chiesto di parlare, oltre che di Buzzati, anche di me stesso, forse perché lui e io abbiamo percorso due strade per certi versi parallele. O piuttosto, per non essere tacciato di presunzione, dovrei dire che io ho seguito un percorso per certi versi simile a quello tracciato da lui: fino al 1970 come lettore e spettatore, e dal 1970 in poi come autore. E poiché questa data coincide pressapoco con il mio incontro con lui, mi piace assumere proprio questo incontro come cerniera non solo di questa chiacchierata ma anche della mia vita professionale.

Occhio alle date: "Linus" nasce nel 1965. Nei due anni successivi io scrivo alcune sceneggiature di storie a fumetti. Nel 1968, lo stesso anno in cui Buzzati scrive l'introduzione alle storie di Barks, la Sipra pubblica un mio saggio su Guido Crepax, che credo sia stata la prima monografia mai dedicata all'autore milanese. Poema a fumetti è dell'anno dopo, 1969. In quello stesso anno io getto alle ortiche la mia professione di regista pubblicitario e mi trasferisco da Torino a Roma; due anni dopo, 1971, giro il mio primo lungometraggio ma anche un documentario intitolato Buzzati delle montagne, incontrando lo scrittore e facendo delle riprese nelle sue case di Milano e di Belluno. L'anno dopo Buzzati muore; e due anni dopo io giro il mio secondo lungometraggio, tratto proprio da una storia a fumetti di Guido Crepax.

Tutto succede dunque tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio dei Settanta. Prima, ero soprattutto un grande consumatore di libri, film e giornalini. E vero, avevo già pubblicato articoli e monografie, diretto "Caroselli" pubblicitari e scritto le sceneggiature di quattro o cinque storie a fumetti. Ma il mio rapporto con il cinema, il fumetto e la letteratura era essenzialmente quello passivo, ancorché innamorato, del critico e del fruitore. Ero un lettore e uno spettatore sostanzialmente onnivoro, ma fin da allora prediligevo le storie in cui i contorni del mondo in cui vivevo sfumassero in rivoli indefiniti, diventando fiaba, mito, paradosso temporale, sogno o metafora. Il mondo della fantasia prendeva dunque il sopravvento su quello della realtà, e me ne faccio più una critica che un vanto perché ciò volle dire attraversare il mio tempo senza rendermi conto di quante cose (belle e brutte) vi succedessero. Negli anni del liceo, mentre i miei coetanei leggevano i giornali e si indignavano per l'invasione dell'Ungheria e per i processi a Danilo Dolci, io leggevo Topolino e Pecos Bill, e andavo al cinema a vedere Stanlio e Ollio e i film di avventure con Errol Flynn; e negli anni dell'Università, mentre a Reggio Emilia si moriva e Gianni Rondolino e gli altri amici di "Centrofilm" stravedevano per il neorealismo italiano e per il realismo sovietico, io andavo matto per gli incubi dell'espressionismo tedesco e le commedie surreali di René Clair e Frank Capra. Quanto alla letteratura, passata la grande cotta adolescenziale per Emilio Salgari, feci molta fatica a individuare, in un panorama dominato quasi ovunque dall'estetica del realismo, degli autori non solo da apprezzare ma anche da amare: trovandoli alla fine in Edgar Allan Poe, negli scrittori americani di un certo tipo di fantascienza (Bradbury, Sheckley, Pohl, per non parlare degli antenati storici come Huxley e Orwell) e in due autori nostrani: Italo Calvino - il Calvino degli anni Cinquanta e Sessanta, quello che va dalla trilogia de I nostri antenati fino a Le cosmicomiche e Le città invisibili - e per l'appunto Dino Buzzati.

Amai Buzzati in modo repentino e totale per la sua capacità di creare inquietudine e sospensione - un termine che mi sembra più adeguato del suo inflazionatissimo corrispondente anglofono "suspense" - utilizzando un linguaggio semplice e quotidiano, anziché quello romantico e ridondante degli autori di storie gotiche; e di riuscire a farlo senza bisogno di proiettarsi in un ipotetico futuro, come facevano gli autori di fantascienza, ma semplicemente guardandosi attorno, e calando ciò che vedeva in un contesto dominato non dalle leggi della realtà ma da quelle del sogno. Anzi, spesso non doveva neppure guardarsi attorno, bastandogli affacciarsi su quell'abisso scuro che sta dentro di noi, quelle insondabili profondità dell'inconscio da cui Freud ci ha insegnato che affiorano i sogni e le paure più segrete; come ne Il deserto dei tartari, in cui ha dato forma e dignità letteraria a quel senso di attesa di un evento ineluttabile a cui si può ricondurre la vita di ogni essere umano.

Stando così le cose, figuratevi quanto sono stato felice di scoprire, da quella prefazione che ho citato all'inizio, che anche lui come me amava i fumetti, una "cosa" che era sempre stata considerata come un sottoprodotto della letteratura e che proprio in quegli anni stava finalmente assurgendo alla dignità di una vera e propria forma di linguaggio autonomo. Un linguaggio che era fantastico già di per sè, per quella sua inedita commistione di immagini e di parole conchiuse in una nuvoletta; ma che poi poteva spaziare, e spesso spaziava, nei territori senza confini della fantasia, poiché non doveva neppure osservare i vincoli tecnici ed economici che invece doveva osservare quel suo confratello e coetaneo chiamato cinema. Con il cinema, il fumetto aveva del resto condiviso, almeno fino all'avvento della televisione, la responsabilità di forgiare l'immaginario collettivo del XX secolo, e dal cinema esso aveva mutuato personaggi e temi. Chiunque abbia amato le storie del Paperino di Barks e del Topolino di Gottfredson sa quanti spunti esse abbiano tratto dai grandi film di quegli anni, che poi molto spesso derivavano a loro volta dalla letteratura sia colta che popolare di ogni tempo e Paese, chiudendo il cerchio delle grandi strade affabulatorie del nostro tempo.

Ma ritorniamo a Buzzati: se ero stato contento di scoprire che non solo scriveva cose che avrei voluto saper scrivere io ma gli piacevano quegli stessi fumetti che piacevano a me, lo fui ancora di più quando appresi, nel 1969, che usciva un suo libro intitolato Poema a fumetti.

Ebbene, tanto vale che lo dica subito, rischiando coscientemente la lapidazione in questo consesso di persone che probabilmente quel libro lo amano molto: io lo considero come una delle cose meno riuscite che Buzzati abbia fatto, sia in campo narrativo che in campo pittorico e grafico. Non mi è facile parlarne, perché non so se lasciar la parola al Farina di allora - che, profondamente deluso, diede via la sua copia - o al Farina di oggi, che pur non decidendosi mai a ricomprarla la sottopose nel corso degli anni a un parziale processo di revisionismo. Riflettendoci, penso che la mia delusione di allora sia nata un po' dal fatto che il linguaggio del fumetto fosse adottato in maniera provocatoria e diciamo così "sperimentale" (cosa che oggi sono portato a considerare positiva ma che all'epoca in qualche modo mi offese) e molto dal fatto che i disegni erano (sono) inequivocabilmente brutti, tracciati da una mano che non sapeva e secondo me non ha mai saputo disegnare.

Ma sull'aspetto grafico e pittorico delle opere di Buzzati vorrei tornare più avanti, per non perdere quel filo degli anni che adesso è arrivato al 1971, anno in cui il produttore dei miei documentari accolse la proposta di dedicargliene uno. Ricordo come se fosse oggi la sua casa milanese, gremita di oggetti, sculture e dipinti; sulla memoria galleggiano i nomi di Mario Ceroli e di Pietro Gallina, ma chissà quanti altri autori moderni si stipavano in quelle stanze di alloggio alto-borghese, affacciate su un viale che aveva preso il posto degli antichi bastioni. Ricordo che i quadri avevano letteralmente coperto le pareti, ma non si erano fermati lì e avevano conquistato progressivamente i soffitti per mezzo di chiodi a rampino che ce li tenevano appiccicati contro. E ricordo la persona, che mi accolse con grande cortesia, mi sembrò introversa e infelice, e mi lasciò alla fine con una impressione di grande civiltà e cultura, due doti che già allora incominciavano a parere desuete e che oggi sembrano quasi definitivamente scomparse.

L'intervista fu lunga e minuziosa, e alcuni lacerti ne furono pubblicati a suo tempo su una rivista a fumetti e "sui" fumetti chiamata "Sergente Kirk". Si parlò, com'è naturale, di tutto ciò che entrambi amavamo, i libri, i fumetti e il cinema, tre strade privilegiate per utilizzare i codici del fantastico: codici che permettono di affrontare temi astratti o realtà interiori in modo più consono - e oserei anche dire più divertente - di quanto non facciano quelli del verismo. Si parlò anche della vita, della morte e della fede (trascrivo dall'articolo di cui sopra: "... Altri mi domandano: perché parli sempre di Dio, di santi eccetera? Probabilmente perché vorrei avere una fede. Se uno ha la fede [...] ha una forza strepitosa di fronte alla vita... che io non ho").

Pochi mesi dopo, l'uomo Buzzati moriva; e io non ho mai saputo se all'ultimo quella forza gli sia stata negata o concessa.

Del documentario di dieci minuti che trassi da quell'intervista, integrandolo con riprese qui nel bellunese e con mini-tentativi di ricostruzione delle atmosfere care all'autore, non vi sto a parlare, poiché non lo considero purtroppo una delle mie cose migliori. Preferisco invece lasciar giudicare a voi quanto le vie del fantastico che mi avevano portato a quell'incontro, e forse quell'incontro stesso, abbiano finito per condizionare ciò che ho fatto dopo, quando ho affrontato cinema e letteratura non più come fruitore ma come autore. Prescindendo ovviamente da qualunque considerazione di merito, che in bocca a me - positiva o negativa che fosse - suonerebbe comunque sbagliata.

I conti sono presto fatti: a parte i miei (pochi) racconti e i miei (molti) cortometraggi (dove comunque l'elemento fantastico ricorre spesso e volentieri), a tutt'oggi io ho diretto due film e pubblicato tre romanzi: che essendo tutti nati come soggetti cinematografici si possono benissimo considerare la logica prosecuzione della strada imboccata con i film. Il primo film, Hanno cambiato faccia, ha vinto il festival di Locarno nello stesso anno del mio incontro con Buzzati, ed è una metafora politica in cui la storia di Dracula e lo stesso mito del vampiro vengono riletti in un'ottica moderna, palesemente legata alla cultura marcusiana di quegli anni.

Il secondo film, Baba Yaga, non solo è tratto da una storia a fumetti di Guido Crepax, ma racconta l'incontro fra Valentina e una strega moderna, con non trascurabili componenti feticiste e sado-masochiste che venivano direttamente da Crepax ma non erano immemori delle donne nude e legate che attraversano buona parte dell'opera grafica e pittorica di Buzzati.

Un posto al buio è una rilettura moderna de Il fantasma dell'Opera di Leroux, altro caposaldo della letteratura noir e fantastica; ed è nato all'origine come soggetto per un film, destinato a completare la trilogia "espressionista" dei due film precedenti. Ma non essendo riuscito (e per pochissimo) a diventare un film, diventò invece il mio primo romanzo, aprendo la strada alla mia più recente attività di scrittore. E' doveroso sottolineare, a poco più di un mese dalla morte di Franco Lucentini, che il modello di riferimento da cui nasce la storia è, oltre a Il fantasma dell'Opera, La donna della domenica di Lucentini e di Carlo Fruttero: non a caso una coppia di autori che spesso e volentieri hanno militato anche loro nei territori del fantastico.

Il secondo romanzo, Giallo antico, è la ricostruzione di oggi di un delitto avvenuto all'inizio del secolo, che coinvolge lo scrittore Emilio Salgari e il regista Giovanni Pastrone. Partendo da tutto ciò che si sa di due personaggi reali arriva a dar corpo a un'ipotesi alternativa a quella che storicamente ci è nota: ed è costruito con un tale gioco di incastri tra presente e passato (secondo la tecnica del flash-back, mutuata dal cinema e che mi interessava cercare di applicare alla parola scritta) da diventare una sorta di balletto nel tempo.

Il terzo e per ora ultimo romanzo, Storia di sesso e di fumetto, è la storia grottesca di un editore di fumetti scollacciati degli anni Settanta (di nuovo il fumetto!) che per stress da troppo lavoro incomincia a sprofondare in sogno nelle storie dei suoi albi, sperimentandone in prima persona le massicce dosi di sesso e violenza.

Due film e tre libri: nel fare questa piccola "recherche" mi rendo conto, non senza una certa sorpresa, che praticamente TUTTO ciò che ho fatto, su pellicola o carta, è riconducibile sotto l'insegna del fantastico. E se mi domando perché, mi dò una risposta che può sembrare una contraddizione in termini: paradossalmente, il racconto fantastico consente allo stesso tempo un maggior coinvolgimento e una maggior presa di distanza fra il narratore e ciò che egli narra. Un maggior coinvolgimento perché gli consente di trasmigrare, e di far trasmigrare il lettore, in contrade più vaste e inconsuete; e una maggior presa di distanza perché gli mette a disposizione una gamma di strumenti molto più ricca di quanto non faccia il racconto verista: dal fascino del non-detto-e-lasciato-appena-intuire alla paura dell'ignoto, dall'umorismo nero all'ironia, dal gioco della citazione alla struttura metaletteraria e metacinematografica.

Tutte queste cose, ahimè, appartengono molto più alla cultura anglosassone (e in parte a quella sudamericana) che a quella mediterranea. Ed è a questo, credo, che va imputata la scarsa frequentazione del fantastico da parte dei nostri autori. Anche se all'origine della letteratura italiana c'è una pietra miliare del fantastico come La Divina Commedia, da Alessandro Manzoni in poi si è preferito adottare i codici del verismo. Dopo il primo Calvino, quasi tutto Buzzati, certo Landolfi e certi libri di Fruttero e Lucentini, mi sembra che non si trovi più molto. In attesa di un autore della statura di un Marquez o di un Saramago, dobbiamo accontentarci di un Baricco, la cui visionarietà descrittiva stinge talvolta nel fantastico; e di singoli exploit di autori giovani e ancora poco noti, come la Elena Stancanelli del recente e singolare Benzina, o l'Eraldo Baldini di una raccolta di racconti intitolata Gotico rurale, che ricrea sull'appennino emiliano atmosfere molto buzzatiane. Vanno più di moda i romanzi autobiografici di disagio generazionale, tutti più o meno discendenti per li rami dal giovane Holden di Salinger, e i gialli e i noir, più orientati però verso la violenza efferata dei serial killer - personaggi emblematici dei nostri tempi alienati - che verso le inquietudini e le sospensioni del fantastico. Un discorso analogo si può fare per la produzione cinematografica: a parte la vistosa eccezione di Federico Fellini, si possono solo segnalare alcuni film del primissimo Pupi Avati, i film horror, argentiani e para-argentiani degli anni Settanta, e alcuni più recenti exploit isolati come il Nirvana o il Denti di Salvatores e l'intrigante Una pura formalità di Tornatore. Quasi tutto il resto è minimalismo, bozzettismo, autobiografismo e comunque, sia in chiave di commedia che in chiave di dramma, sia a livello autorale che a livello di exploitation, verismo.

Se ci serve una prova di quanto il racconto fantastico sia lontano dalle corde dei nostri pur bravi registi, basta pensare ai film che dalle opere di Buzzati sono stati tratti: non sono mai riuscito a vedere il Barnabo delle montagne di Brenta, passato come una meteora nelle salette dei cinéma d'essai, ma personalmente considero tutti gli altri come film sostanzialmente irrisolti: troppo calato nei moduli della commedia all'italiana Il fischio al naso di Tognazzi, troppo incerto fra l'introspezione e il grande spettacolo con cast internazionale Il deserto dei tartari di Zurlini, e a disagio un maestro della realtà quotidiana come Olmi nella dimensione fiabesca de Il segreto del bosco vecchio. Quanto a me stesso, cercai negli anni Settanta di portare avanti in Rai una proposta di Sei racconti di Dino Buzzati. Ma non ci riuscii allora, quando pure l'interlocutore si chiamava Paolo Valmarana: figuriamoci quante probabilità avrei adesso, sotto la devastante foga delle bieche leggi dell'audience.

Mi rendo conto di aver perso un po' di vista il fumetto, e ciò è dovuto probabilmente al fatto che pur continuando ad amarlo il mio interesse di un tempo si è spostato sul limitrofo campo del libro illustrato, che amo, colleziono e studio. Ciò mi consente di tornare come promesso, anche se in dirittura d'arrivo, sull'aspetto grafico e pittorico dell'opera di Buzzati, a cui ho dedicato negli anni alcuni articoli su varie riviste.

Buzzati, come certamente sapete, amava ripetere che si considerava non già uno scrittore prestato tardivamente alla pittura ma un pittore prestato da sempre alla scrittura. C'era, io credo, in questa affermazione, una buona dose di civetteria, e di quell'atteggiamento che gli inglesi chiamano ironicamente "fishing for compliments", perché, secondo la mia modesta opinione - IMHO, nel linguaggio ellittico di Internet - all'eccelso scrittore corrispondeva un ben più limitato pittore. I suoi disegni provengono dallo stesso straordinario mondo poetico da cui provengono gli scritti, un mondo di sogni e di incubi, di abiti senza nessuno dentro, di bestiari favolosi, di donne nude e legate: un mondo che si alimenta da ogni tipo di sorgente, dalla cultura "alta" dei surrealisti a quella "bassa" dei fumetti feticisti e sadomasochisti di John Willie. Il limite non è quindi di carattere contenutistico ma formale: mentre le parole le sapeva maneggiare con consumato mestiere, Buzzati aveva nel tracciare le immagini lo stesso impaccio che hanno i bambini, cui non difetta la fantasia ma la tecnica. Questo spiega perché Poema a fumetti abbia un suo innegabile fascino, che naufraga purtroppo (IMHO) nella bruttezza dei disegni; e spiega anche perché le altre sue due opere grafiche, che adottano codici di linguaggi figurativi già a priori ingenui e approssimativi, si possano considerare invece due gioiellini poetici di livello non inferiore a quello di tanti suoi scritti. Mi riferisco naturalmente a La famosa invasione degli orsi in Sicilia, pensato, scritto e illustrato per i bambini, e che non poteva che avere le deliziose illustrazioni "da bambini" che ha; e a I miracoli di Val Morel, in cui il codice di riferimento non è rappresentato dal disegno dei bambini ma da quello rozzo e incolto degli artefici degli ex-voto di sempre. In questi due casi, la mancanza di tecnica non rappresenta un limite ma una precisa scelta poetica: mentre nel Poema a fumetti permane un abisso fra la ricchezza dei contenuti e l'inadeguatezza della forma, un po' come è successo, molti anni primi, con altri grandi scrittori che si sono intignati a illustrare le proprie opere, come Lewis Carroll e Rudyard Kipling.

Glielo dissi quando ci incontrammo, ed egli accettò urbanamente la critica, peraltro affermando di non condividerla, e ribadendo quietamente che non sapeva dire lui stesso se si considerava uno scrittore o un pittore. Ridotta la questione in questi termini, quella che consideravo una civetteria mi sembrò già allora una posizione più accettabile e comprensibile. Oggi, poi, mi pare di poterla addirittura condividere, forse perché, da qualche anno in qua, non è chiaro neppure a me se devo considerarmi uno scrittore o un regista. E forse è anche per questo che il grande Dino, a distanza di trent'anni dal nostro unico incontro, continua a essermi così vicino e così caro.

(Testo di base per l'intervento al convegno "Buzzati, fumetti e altre visioni" - Feltre e Belluno, 12-14 settembre 2002)


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