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IL MISTERO DEI DUE SERPI

Ebbene, no, amico lettore: anche se il titolo potrebbe fartelo supporre, non sto per condurti nei tenebrosi sotterranei cari alla letteratura romantica del tardo Ottocento, in compagnia di Rocambole o di Fantomas: ma nei colorati ed eleganti saloni del Novecento, e più precisamente in quel minuscolo angolino in cui trovano (angusto) spazio i libri illustrati italiani di pregio.

Che significa, "minuscolo angolino"? Significa che, mentre in Inghilterra, e soprattutto in Francia, i primi trent'anni del secolo videro il moltiplicarsi dei "Club di bibliofili" e degli editori specializzati in edizioni di lusso (libri bellissimi in tiratura limitata, stampati su carta speciale, spesso illustrati con incisioni originali o acquarellati a mano), in Italia si continuava a vivacchiare alla stracca. Non che mancassero gli artisti validi, tutt'altro: mancava però quella che potremmo definire una adeguata "cultura libraria". (Da parte del pubblico o da parte degli editori? Qui siamo - ahimè- di fronte all'antico dilemma dell'uovo e della gallina: poichè non c'è dubbio che l'offerta e la richiesta del mercato interagiscano fra di loro, condizionandosi a vicenda, sia verso l'alto che verso il basso).

Il risultato era che molti artisti italiani dovevano lavorare all'estero (e valga fra tutti l'esempio di Umberto Brunelleschi), mentre altri si rassegnavano a lavorare in contesti clamorosamente inadeguati (si vedano le splendide illustrazioni di Cambellotti per Le mille e una notte, "umiliate e offese" in una edizioncina da pochi soldi). I cosiddetti "bei libri" (validi sia dal punto di vista estetico che da quello editoriale) si potevano quindi contare sulle dita delle due mani: il Pinocchio illustrato da Mussino, il Trilussa e il San Francesco illustrati da Cambellotti, la Vita Nova di Vittorio Grassi, la Sibilla di Giulio Aristide Sartorio e pochissimi altri.

Fra questi pochissimi, ce n'è uno che è molto meno noto dei suoi già citati confratelli: una lussuosa edizione, pubblicata da Mondadori nel 1930, de La porchetta bianca, una lunga poesia di Trilussa, che oscilla fra la fiaba e l'apologo, e che dà la singolare impressione di essere rimasta incompiuta. (Dieci anni prima, Duilio Cambellotti aveva illustrato, di Trilussa, le Favole; ed è paradossale che, fra i pochissimi libri figurati nostrani di livello internazionale ce ne siano addirittura due dedicati a un poeta che appartiene a una dimensione che non è neanche nazionale, ma addirittura dialettale).

Il volume, come risulta dal frontespizio, è illustrato da "trentadue tavole litografiche di Bruno Serpi". Chi sia questo signore, nessuno ce lo dice; e tuttavia appare evidente, da un esame anche superficiale delle tavole (dotate di grande eleganza, sia grafica che cromatica, e ricche di riferimenti agli aspetti meno corrivi del gusto figurativo dell'epoca), che si tratta di artista tutt'altro che sprovveduto e dozzinale. Come del resto risulta essere altrettanto valido un altrettanto sconosciuto Fabio Serpi, che più o meno in quegli stessi anni illustrò alcuni libri di più modesta levatura.

Ebbene, la soluzione del "mistero dei Serpi", me la diede il caso una quindicina di anni fa. Ne scrissi, allora, su un paio di riviste; ma poichè studi recenti e per molti versi documentatissimi (come la Storia dell'illustrazione italiana di Paola Pallottino) non ne fanno cenno, mi sembra che non sia inutile, oggi, ritornare sull'argomento.

Sia "Bruno Serpi" che "Fabio Serpi" sono, in realtà, degli pseudonimi di Gabriele Galantara: co-fondatore, co-editore e "pupazzettista princeps" di quell' Asino che uscì, con alterne vicende, per ben trentacinque anni (dal1892 al 1927), e che resta ancor oggi, oltre che uno dei più longevi, anche uno dei più validi esempi di quel giornalismo di satira politica in cui eccelsero soprattutto gli inglesi. Non è azzardato affermare che, senza L'asino, oggi non esisterebbe Cuore, e senza Galantara non esisterebbero (citando a casaccio e senza entrare nei rispettivi meriti) i vari Bucchi, Altan, Chiappori, Angese, Staino, Disegni, Pericoli e Forattini.

"Ratalanga", si firmava allora Galantara: ed era, il fatto di nascondersi dietro uno pseudonimo, una civetteria, un gioco di vago sapore goliardico (del resto, sia Galantara che il suo principale sodale e compagno di strada Guido Podrecca uscivano proprio dalle file della goliardia bolognese, e dalle pagine di un giornale goliardico, Bononia ridet). Certo, non si trattava né di scelta obbligata nè di mancanza di coraggio delle proprie opinioni: opinioni che coincidevano con l'utopia socialista della fine dell'Ottocento, e che anzi Galantara si faceva un punto d'onore di ostentare e di sventolare a mo' di bandiera, attaccando sistematicamente con vignette e caricature feroci tutti coloro che di volta in volta deludevano le aspettative degli spiriti più illuminati e progressisti (Giosuè Carducci, Giovanni Giolitti, Pio X, e tutti i Capi di Governo dell'Italia umbertina, da Pelloux a Rudinì, da Crispi a Zanardelli).

Dalla semplice enumerazione di quelli che furono i suoi bersagli preferiti risulta chiaramente la vocazione donchisciottesca di Galantara e del suo giornale, che per trentacinque anni di trovarono in prima fila nella lotta contro la borghesia e contro i detentori del potere: una vocazione pericolosa, che finì col distruggere l'uno e l'altro.

Quando L'asino, come era inevitabile, cominciò ad ansimare sotto i giri di vite della censura fascista, Podrecca gettò la spugna, abiurando il proprio passato di socialista; ma Galantara andò avanti, attaccando ferocemente Mussolini e le sue due "spalle culturali", Michele Bianchi e Giovanni Gentile. Come risultato, le pubblicazioni del giornale furono interrotte a più riprese, e nel 1927 cessarono definitivamente, mentre Galantara veniva imprigionato a Regina Coeli.

Ne uscì dopo pochi mesi, ma ormai fiaccato nello spirito e nel corpo: e si trovò improvvisamente del tutto emarginato, non solo sul terreno della satira politica (che le leggi eccezionali sulla stampa avevano praticamente annientato) ma anche su quello, molto più innocuo, della illustrazione. Ed ecco dunque morire Ratalanga e comparire i più anonimi "Bruno Serpi" o "Fabio Serpi": pseudonimi che non erano più di attacco ma di difesa, e che nascevano non più per gioco o per provocazione ma per sopravvivere, e poter continuare a lavorare.

E ritorniamo così a La porchetta bianca, da cui abbiamo preso le mosse: dove si ritrova facilmente la mano del grande pupazzettista dell'Asino, ma non se ne ritrovano l'animosità né l'ardore battagliero : chè anzi il tratto si stempera in una sorta di rubizza bonomia, in una ricerca di moduli infantili che spostano l'ispirazione grafica più verso le pagine del Corriere dei piccoli che verso quelle dei giornali di satira poltica. Il che è abbastanza paradossale, considerando che il poemetto di Trilussa é molto più vicino all'apologo per adulti che alla fiaba infantile.

Dov'è, allora, che il libro cresce di statura? Nell'uso raffinato dei colori, che sono dati a tinta piatta, ottenendo con la fotolito un effetto non molto dissimile da quello dei "pochoir" di scuola francese; nella vivacità degli accostamenti cromatici, che sembrano talvolta strizzare l'occhio a Depero e ad altre provocazioni di area futurista; nell'uso della decorazione secondo simmetrie e geometrie elegantissime, di evidente ispirazione secessionista, e che sono particolarmente avvertibili negli sfondi e in alcuni drappeggi degli abiti femminili.

Infine, last but non least, si tratta di un bel volume di grande formato, edito in soli mille esemplari numerati, e con tutte le caratteristiche dell'editoria di lusso transalpina. E non si può non confessare un'ombra di sciovinistico compiacimento nel leggere sul "colophon", una volta tanto, "carta di Fabriano" al posto del consueto "papier Japon" o "papier Holland Van de Velde".

(Comic Art, settembre 1992)

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