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FIGURE, BELLE FIGURE E FIGURACCE

Confesso di provare, nell'accingermi a redigere queste note, un certo imbarazzo: poiché mi si chiede di intervenire su un argomento, la letteratura per i ragazzi, che mi ha sempre in qualche modo affascinato, ma che non ho mai approfondito, a livello di studio, quanto avrei voluto e potuto fare. Tanto vale che lo dica subito: non sono mai stato alla Fiera di Bologna, non compro più libri per ragazzi da quando i miei figli hanno smesso di essere tali, e non avevo mai visto nè preso in mano, finora, un numero della rivista "LG". Mi domando quindi se il mio tipo di approccio all'argomento, che sarà molto più giornalistico e meno dotto di quanto non lo siano normalmente gli interventi che compaiono sulle pagine di questa rivista, possa essere quello giusto. Ma tant'è, altro tipo di approccio non saprei inventare; e non mi resta quindi che procedere, chiedendo scusa a priori dell'eventualità di dire cose già discusse altre volte sulle pagine della rivista, e forse, per i suoi lettori, scontate.

Come scrivevo poco più di un anno fa, inaugurando sulla rivista "Comic Art" una rubrica dedicata all'illustrazione, io non amo particolarmente i bambini ma mi affascina tutto ciò che, in un modo o nell'altro, riguarda loro ed il loro universo. E cercando di spiegare a me stesso le ragioni di questa contraddizione, scrivevo: "molti bambini di oggi, nutriti fin dalla più tenera infanzia con dosi massicce di telefilm giapponesi e di spot pubblicitari, perdono prestissimo la loro innocenza, trasformandosi precocemente in piccoli adulti, con tutti i difetti, le furberie e le nevrosi che la cosa comporta; là dove di solito ciò che si riferisce all'universo infantile (fatta la tara di tutto ciò che considera il bambino come un semplice consumatore) si riferisce al bambino non come è ma come potrebbe e dovrebbe essere: un meraviglioso essere dalle risorse potenzialmente illimitate, fantasioso, disponibile e, per l'appunto, "innocente": insomma, un "buon bambino" che, nel bene e nel male, ha più di un punto in comune con il "buon selvaggio" degli illuministi".

Suppongo sia questo mio rimpianto per una innocenza sempre più colonizzata ed invasa, che mi ha ricondotto saltuariamente, nel corso della mia attività di regista, ad affrontare in alcuni cortometraggi (Come ti erudisco il pupo) o servizi televisivi (Balocchi e consumi) i condizionamenti cui la nostra vessatoria società sottopone questo essere meraviglioso che è il bambino; e che mi ha fatto individuare nel libro per l'infanzia uno dei capitoli più affascinanti di quella storia del libro illustrato nella quale, seguendo un itinerario che partiva dal cinema, e passava attraverso la grafica, la pubblicità e il fumetto, mi sono avventurato anni fa.

Avrete già capito, a questo punto, uno dei postulati di base di questo discorso: e cioè che la distinzione, comunemente accettata, fra "arti maggiori" e "arti minori" (fra le quali rientrano praticamente tutte le cose cui mi sono interessato negli anni) non mi trova per niente consenziente. Se per arte (arte drammatica, arte figurativa, arte retorica) intendiamo quel prodotto dell'ingegno umano che serve "a insegnare al cuore umano, traverso alle sue simpatie e antipatie, la conoscenza di sè medesimo" (non vi state a scervellare, è Percy B. Shelley, nell'introduzione de I Cenci), ebbene, dobbiamo riconoscere che la saga a fumetti di Little Nemo vale quanto L'interpretazione dei sogni di Freud, La febbre dell'oro di Chaplin quanto La recherche di Proust, e le illustrazioni di molti libri per bambini pubblicati in Inghilterra all'inizio del secolo quanto la Cappella Sistina. Poiché si tratta sempre e comunque di opere che a) suscitano coinvolgimento ed emozione; b) lo fanno in modo originale ed autonomo; c) inducono a scrutare entro se stessi ed a porsi delle domande; se non addirittura d) suggeriscono delle risposte.

Nella stessa fossa in cui seppellirei la distinzione fra "arti maggiori" e "arti minori", ci metterei anche la distinzione fra arte ed artigianato. Più che altro perché spesso se ne fa un uso improprio, tendente a relegare nella seconda categoria tutto ciò che non viene considerato sufficientemente "importante" secondo i codici della cultura ufficiale: là dove l'unica vera distinzione fra l'una e l'altro mi sembra che stia nel fatto che la prima innova, mentre il secondo si limita a ripercorrere solchi già tracciati da altri.

Sgomberato il campo da queste due pregiudiziali, torniamo a quella che abbiamo identificato come funzione primaria dell'arte, e cioè aiutare l'uomo a conoscere se stesso. Se si concorda su questo assunto di partenza, mi sembra non ci si possa non trovare d'accordo sul fatto che la funzione dell'arte raggiunge il colmo della sua pienezza (ma anche della sua difficoltà) quando si rivolge all'uomo che uomo non è ancora, e cioè al fanciullo: che proprio in quanto innocente (nel senso che abbiamo detto prima) è una specie di foglio bianco, e può essere "riempito" (nel bene e nel male) con molta maggiore facilità di quanto non lo possa essere un adulto.

Ecco perché, secondo me, la letteratura per l'infanzia ha una importanza straordinaria, e non le si dedica che una parte irrisoria dell'attenzione che meriterebbe: poiché è proprio attraverso di essa che i bambini di oggi (che poi sono gli uomini di domani) ricevono i loro primi "imprinting": ed è fondamentale che questi siano positivi e fecondi, se veramente vogliamo che questa palletta di terra su cui ci troviamo vada verso un futuro migliore, e che l'essere umano diventi, per rimanere a Shelley, sempre più "giusto, savio, sincero, tollerante e buono".

(Qui si imporrebbe un'ampia parentesi, poiché sono ben conscio del fatto che il buon Shelley era un utopista, e che l'essere umano sta andando in una direzione esattamente opposta a quella da lui auspicata. Credo non sia difficile identificarne una delle cause primarie, almeno per quanto riguarda i bambini, nella progressiva "perdita di contatto" fra essi e i genitori, e nella correlata "presa di potere" da parte della televisione, con il vistoso degrado degli "imprinting" che fatalmente ne deriva. "Sed de hoc satis": non siamo qui per parlare di questo, e non vorrei, come spesso mi veniva rimproverato negli anni del liceo, "andare fuori tema").

Chiarito (se per caso ce ne fosse stato ancora bisogno) il ruolo non secondario che riveste la letteratura per l'infanzia nella storia della cultura, veniamo dunque a quello che è il nostro vero e proprio terreno di gioco: e cioè l'argomento, strettamente connesso con l'altro, dell'importanza che riveste, nella letteratura per l'infanzia, l'illustrazione.

Che per l'appunto è importantissima, lo è sempre stata e oggi lo è in misura ancora maggiore, visto che viviamo all'interno

a) di una civiltà audiovisiva, in cui qualsiasi forma di comunicazione che non passi attraverso i suoni e le immagini è destinata a farsi strada a fatica;

b) di una civiltà superficiale e frettolosa, in cui, per voler troppo avere, si rischia di non avere più niente, e in cui la moltiplicazione dei consumi è inversamente proporzionale al tempo che si dedica a ogni singolo consumo.

In questi termini, e non considerando la televisione (che ovviamente stravince su qualsiasi altra forma di comunicazione), credo sia chiaro che il libro composto da parole e figure ha maggiori possibilità di raggiungere il suo destinatario che non il libro solamente scritto, ed ha quindi, in quella funzione di formazione culturale di cui si diceva prima, una sua individuale, irrinunciabile responsabilità aggiunta; e questo è tanto più vero in quanto ci si rivolge ad un pubblico, come quello dei bambini, la cui dimestichezza con la parola scritta è ancora di là da venire.

Ma la maggiore responsabilità del libro illustrato non deriva solo dal fatto che esso viaggia, per così dire, su una corsia preferenziale, ma anche dal fatto che essa si esplica in almeno due direzioni diverse, complementari fra di loro. Alla funzione, comune a tutti i libri, di "costruire divertendo e divertire costruendo" (per "costruire" intendo aiutare il bambino a costruire se stesso, nel senso già prima chiarito. E preferisco di gran lunga questa parola a quella più tradizionale di "istruire", che mi sembra legata ad un concetto pedagogico di stampo addirittura ottocentesco), esso affianca una funzione importantissima di "educazione estetica"; o, se preferite, di "avviamento al buon gusto".

Fornire ai bambini i codici giusti per imparare a distinguere ciò che è bello da ciò che è brutto, ciò che è armonico da ciò che è dozzinale, è un compito di importanza primaria, perché dà loro le armi per difendersi dal mondo che li circonda. Poiché il cattivo gusto, oggi, è un tarlo che corrode alla base la nostra cultura (o subcultura?), e che si annida dovunque: negli abiti, nei comportamenti, nell'uso del vocabolario, nella pubblicità, negli spettacoli (televisivi, soprattutto, ma non solo in quelli...). E allora, conservare e tramandare ai nostri figli dei codici critici ed estetici, aiutarli a riconoscere e ad apprezzare, in mezzo alla paccottiglia, tutte le Cappelle Sistine di ieri e di oggi, può essere importante come era importante mandare a memoria i libri votati alla distruzione nel finale de Gli anni della fenice (o Fahrenheit 451) di Ray Bradbury.

Bisogna dire che a questa forma di autocoscienza della propria funzione formativa sul piano estetico, la letteratura per l'infanzia non ci è arrivata così presto, nè così facilmente. A partire da quello che viene comunemente considerato il primo libro illustrato per bambini, il Kunst und Lehrbüchlein, pubblicato in Germania nel 1578, devono passare almeno un paio di secoli prima che il vento dell'illuminismo e il tornado della rivoluzione francese spazzino via delle concezioni medioevali, che inchiodano il bambino in una posizione totalmente passiva: due secoli in cui la sedicente e già scarsa letteratura per l'infanzia si riduce a tediosi

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trattati religiosi e morali (diretti molto più ai pedagoghi che ai bambini), o nel migliore dei casi ad altrettanto tediose edizioni "ad usum Delphini", illustrate, queste e quelli, con xilografie sommarie e assai poco accattivanti, o con rami di ispirazione mitologica e classicheggiante che non potrebbero essere più distanti da quella che è l'iconosfera del mondo infantile.

Unica nota dissonante, in questo desolato panorama, sono i libri di favole, non intese nel senso moderno ma in quello antico di "apologo morale": le raccolte di questo genere di componimenti poetici, siano essi "classici" (Esopo e Fedro) o "contemporanei" (Verdizotti e La Fontaine, tanto per citare i nomi più noti) hanno quanto meno il merito di offrire alla fantasia dei bambini l'accattivante valvola di sfogo del bestiario antropomorfizzato: ma il fatto che anche in questi casi le illustrazioni siano esattamente le stesse di quelle dei coevi libri "per adulti" testimonia del fatto che il problema di adeguarsi al lessico e alla fantasia del bambino non si poneva neppure.

Le cose cominciano a cambiare nel secolo successivo: sugli abbecedari della Francia rivoluzionaria (primi sintomatici tentativi di rivolgersi direttamente al bambino) spuntano i primi esperimenti di figure colorate a mano, e sufficientemente stilizzate da poter supporre che, finalmente, siano state pensate in funzione dei codici dell'infanzia. Ma ci vorranno ancora alcuni decenni perché il polveroso bozzolo pedagogico di un passato edificante e moraleggiante venga lacerato, e ne esca, coloratissima e sovversiva, la farfalla della fantasia.

Poiché l'illustrazione dell'Ottocento, che passi attraverso le incisioni su acciaio (più nitide di quelle su rame, ma anche molto più fredde) o la rinnovata tecnica della xilografia, è, dal punto di vista del bambino, quanto di più triste e di più scostante possa mai concepire la mente di un sadico istitutore: una parata di bimbi con il faccino smunto, con occhiaie profonde scavate dal bulino, infagottati in abiti che paiono cilicî, e tutti perbenino, per carità, con tanto di cerchio in mano o seduti compostamente davanti alla lanterna magica.

Ma i tempi, per fortuna, stanno rapidamente cambiando: in Francia deflagra, nel mondo dell'illustrazione "per adulti", la visionaria (e quindi sovversiva) immaginazione di Grandville, e in Germania la sadica (e quindi sovversiva) pedagogia dello Struwwelpeter. In Inghilterra, William Morris teorizza, all'interno del movimento "Arts & Crafts" , il ritorno alla festosità e alla ricchezza dei codici miniati rinascimentali; la rivoluzione delle tecniche di stampa, che permette di introdurre il colore, fa sì che anche gli illustratori incomincino a "pensare" a colori; e scompaiono quindi, tra l'altro, gli abiti/fagotto, sostituiti dai deliziosi vestitini rétro di Kate Greenaway, e le profonde occhiaie infantili, sostituite da dolcissime tonalità di incarnato roseo e sfumato.

E' la cosiddetta "età d'oro dell'illustrazione", che all'inizio del nostro secolo permette a tutto uno stuolo di valenti artisti, per lo più inglesi (Walter Crane, Arthur Rackham, Edmund Dulac, Kay Nielsen, Charles e William Heath Robinson) di prendere possesso di territori letterari che il mondo degli adulti, sempre più organizzato e pragmatico, sta progressivamente abbandonando: quello delle favole e dei miti, certo, ma anche il mondo delle fate in generale, quello metaforico e grottesco di Gulliver, quello avventuroso di Robinson Crusoe. E consente a questi artisti di reinventarli in un'ottica completamente nuova, e finalmente "a misura di bambino", anche se poi, presumibilmente, la bellezza tipografica (e il costo) di molti di questi libri precludono ai loro veri destinatari la possibilità di metterci sopra le mani senza il controllo dei genitori.

Come che sia, la diga é crollata, e la fantasia ed il gioco entrano a vele spiegate nella "nursery"; e con esse ci entrano, oltre che la festosità e la molteplicità degli stimoli contenutistici, anche una serie di stimoli di carattere estetico. Credo si possa tranquillamente affermare che la straordinaria varietà di stimoli e di proposte della cultura figurativa della prima metà del Novecento trova un'eco fedele nelle illustrazioni dei coevi libri per l'infanzia (in Inghilterra e in Francia, soprattutto, ma anche, un po' più faticosamente, in Italia: basti pensare al Pinocchio liberty di Attilio Mussino, alle Mille e una notte di Duilio Cambellotti, o alle eleganti stilizzazioni déco dei libri per bambini di Sergio Tofano).

Ed oggi? Che succede, oggi? La cultura della seconda metà del nostro secolo mi pare sia stata caratterizzata da un sempre maggiore appiattimento, per non parlare di quello scadimento del gusto di cui si diceva prima. Fatto sta che, dal 1950 ad oggi, l'arte mi è sembrata essenzialmente impegnata a riciclare se stessa (che cos'altro sono la pop-art, il post-moderno, e lo stesso cinema degli ultimi decenni?).

Anche il libro illustrato per bambini, dopo l'esaltante ma illusoria fiammata degli anni post-sessantotto (e a proposito della quale mi sembra doveroso citare almeno l'impegno della Emme Edizioni), mi sembra che tenda, nel migliore dei casi, a ripercorrere le vie del passato. Riproponendone codici (quanti Arthur Rackham, quante Beatrix Potter, quanti Sergio Tofano...) ed equivoci (ad esempio, certe edizioni del Pinocchio, come quella di Alberto Longoni o quella recentissima di Mario Schifano, che mi sembrano molto più dirette agli adulti che non ai ragazzi).

E' un panorama sconsolante? Tranquilli, che alle sue spalle ce n'è un altro, di gran lunga più vasto e più minaccioso: è il rischio di una omologazione fra i diversi media del nostro villaggio globale, e della conseguente scomparsa, dagli scaffali delle librerie, di qualsiasi libro illustrato che nasca e si muova in modo autonomo, prescindendo dagli altri tentacoli che avviluppano l'universo infantile. E' un rischio già avvertito vent'anni fa da Antonio Faeti, nell'introduzione del suo Guardare le figure, e che oggi è più che mai reale: basti vedere quanti libri per bambini, oggi, altro non siano che versioni scritte di film (valga per tutti l'esempio del materiale Disney) o di telefilm: un'operazione che, dal punto di vista dell'omologazione culturale e dell'appiattimento seriale, é infinitamente più pericolosa di quella di segno opposto.

In sostanza, stiamo rischiando che l'"uomo a una dimensione" di marcusiana memoria riesca a costruire un "bambino a una dimensione", modellato sul prototipo falso e consolatorio imposto dalla "sua" televisione e dalla "sua" pubblicità: una ipotesi che mi sembra degna delle più agghiaccianti profezie di ingegneria genetica di Aldous Huxley.

Tocca a tutti noi, che siamo studiosi, scrittori, illustratori, registi, o anche semplicemente genitori, impedire che questo diabolico piano arrivi a buon fine.

(LG Argomenti, gennaio-marzo 1993)

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