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LETTERA A GRETA GARBO

Devoti omaggi a te dovunque ti trovi, algida, altera, aliena divinità di una cattedrale oscura, ombra sovrana fra tutte le ombre in movimento che ci hanno affascinato dal grande schermo

Questa non è una lettera d'amore ma piuttosto un tentativo di far luce sul rapporto ambiguo che c'è sempre stato fra di noi. Nonostante io abbia percorso in lungo e in largo la storia del cinema, infatti, i nostri effettivi incontri sono limitati a uno dei tuoi primi film (La via senza gioia, 1925) e a uno dei tuoi ultimi (Ninotchka, 1939). Forse che non ho mai avuto occasione di vederne altri? Accidenti, se l'ho avuta. A parte la resistenza partigiana sulle non di rado scomode sedie dei cineclub, i tuoi film più noti vengono riproposti in continuazione dal piccolo schermo, e non è difficile incontrarti sugli scaffali di quei supermercati dei sogni cinematografici che sono le cosiddette videoteche (parlo ovviamente delle più rispettabili fra esse, e non di quelle per cui il cinema incomincia e finisce con Rambo e con Pretty Woman). Se quindi i tuoi film più famosi mi sono noti solo attraverso occasionali brandelli colti al volo nel magma televisivo in qualche notte di insonnia, significa che li ho sempre più o meno inconsciamente evitati; e poiché questo non è nè giusto nè bello nei tuoi confronti eccomi qui, idealmente adagiato su un divano di psicanalista, a cercare di spiegarmene le ragioni.

Se questa non è una lettera d'amore, come potrei scrivere (e forse scriverò) a tante tue colleghe, da Louise a Marilyn, da Audrey a Julie, da Maureen a Brigitte, è proprio perché tu non mi appari come una donna, ma come un'icona, o una dea. Delle icone, tu possiedi l'astrazione metafisica, la valenza simbolica e al tempo stesso la capacità di sintesi; delle dee, il fatto di appartenere a una dimensione cosmica diversa. Questo ti colloca a una distanza non superabile con i mezzi degli esseri umani: le dee si possono adorare da lontano, e ammirare con lo stesso sentimento di devozione e di gratitudine che si può provare davanti a un'opera d'arte, ma non le si può amare, desiderare e sperare di portare a letto (a meno di non essere un dio, come ben sapeva quel briccone di Giove).

Delle dee e delle icone, tu hai l'assolutezza e la perfezione: a cominciare da quel tuo volto in cui sarebbe vano cercare un qualsiasi difetto, impeccabile scrigno di due occhi bellissimi ma troppo spesso schermati da una sottile lastra di ghiaccio. E forse è proprio la somma di questa bellezza e di questa freddezza che fa di te un'aliena, lasciando libero il campo all'ammirazione ma sbarrando il passo all'amore.

Hanno visto giusto tutti coloro che hanno scritto che tu eri infinitamente superiore ai tuoi film, anche quando eri diretta da registi di vaglia; che passavi attraverso le tue storie e attraverso le braccia dei tuoi partner cinematografici come se neanche li vedessi, come se ti muovessi in una dimensione che trascendeva uomini e cose; e che l'unica creatura con la quale potessi dialogare alla pari era l'immagine di te stessa allo specchio, non a caso "topos" ricorrente delle tue pellicole. Ed hanno visto giusto tutti coloro che ti hanno assunta come simbolo (icona, appunto) dell'immaginario collettivo, affidandoti il ruolo di te stessa in forme di spettacolo e di comunicazione che non erano le tue. Pensiamo ad esempio all'universo delle immagini disegnate, in cui sei transitata spesso, a partire dal tuo ormai remoto incontro con Topolino (nel cortometraggio disneiano a cartoni animati Mickey's gala première, 1933) per finire con quello di pochi anni fa con Martin Mystère (Il mistero di Anna K., 1994), passando attraverso l'udienza concessa nel 1936 ai quattro moschettieri di Nizza e Morbelli, in occasione della quale (come risulta da un noto disegno di Angelo Bioletto) tutti i divi Hollywood si rivelarono semplici cortigiani di una sovrana che vestiva i panni della regina Cristina ma che in realtà era semplicemente "la Garbo".

Già, anche il tuo nome d'arte divenne un'icona ("Garbo talks!", titolarono i giornali all'uscita del tuo primo film sonoro), facendo scomparire quel "Greta" che rappresentava l'ultimo retaggio dell'anatroccola svedese che eri stata; e qualcosa di simile accadde ai titoli dei tuoi film, che sempre più spesso coincisero con il nome del tuo personaggio, illuminandoti con la luce dei riflettori e lasciando in ombra tutto il resto, a riprova di quanto abbiamo detto poc'anzi. Ma questo effetto di scollamento alla lunga si rivelò deleterio, poiché ti immise in una spirale di pellicole sempre più sfarzose e sempre più vicine al baratro del melodramma, nella convinzione che solo questo si addicesse alla "Garbo": quando sono convinto, siamo convinti in tanti, che ben altro tu avresti potuto e saputo fare. Come seppe fare Marilyn, ad esempio, quando qualcuno la sottrasse a quel personaggio di perversa che aveva portato lei e Niagara sull'orlo del ridicolo.

Ecco, lo vedi che il lettino dello psicanalista a qualcosa serve? Adesso forse ho capito perché ho visto solo uno dei tuoi primi film e uno degli ultimi, scavalcando tutte le tue regine, le tue spie e le tue signore con le camelie, paralizzate da un'ingessatura artatamente creata da Irving Thalberg, il boss della MGM a cui tu devi tutto il bene e tutto il male della tua carriera cinematografica. Perché ne La via senza gioia non eri ancora "la Garbo", e in Ninotchka eri finalmente riuscita a non esserlo più (forse grazie al fatto che Thalberg non era più lì a dettar legge a sceneggiatori e registi). Su di te, in quest'ultimo film, scese la grazia del cosiddetto "Lubitsch touch", dandoti finalmente l'incommensurabile dono dell'ironia e del sorriso ("Garbo laughs!", titolarono questa volta i giornali). E nello sgretolarsi della corazza burocratica della compagna Ninotchka mi piace leggere in trasparenza lo sgretolarsi di quel personaggio melodrammatico e falso che Thalberg ti aveva cucito addosso.

Purtroppo era troppo tardi, e tu dovesti rendertene conto, se avesti il coraggio di uscire di scena prima che il passare degli anni e l'imbastardirsi delle leggi dello spettacolo riuscissero a fare scempio di te. Anche altri, come Marilyn o come Jimmy Dean, hanno avuto lo stesso destino, ma la causa è sempre stata un fatto traumatico che stroncava brutalmente una vita, e non solamente una parabola artistica. Tu sei l'unica, credo, che ha saputo stroncarla per libera scelta. E non ti saremo mai abbastanza grati, oltre che di aver tante volte illuminato lo schermo con la tua sola presenza, di averci risparmiato l'immagine di una Garbo devastata dagli anni, e ridotta a fare la réclame di un dentifricio o la comparsa di lusso in una telenovela.

Grazie, o divina.

(Collezionare fumetti e libri per l'infanzia n.2, Little Nemo, Torino, marzo 2000)

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