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NON APRITE QUESTO LIBRO

... a meno che non siate, naturalmente, uno di quei depravati che subiscono il fascino, oltre che delle belle illustrazioni, anche di un certo cinema di serie B, e in particolare quello dei cosiddetti film dell'orrore. Poichè, in questa deprecabile ipotesi, questo libro dovete non solo aprirlo ma anche godervelo dalla prima all'ultima pagina, con raccapricciante voluttà .

Sto parlando, tanto per darvi subito le coordinate del nostro argomento di oggi, di un bel volume edito da Fanucci che si intitola Immagini sepolte, e che, uscendo fuori (ma neanche poi tanto) dalla consueta area territoriale di intervento di questo Editore (da anni dedito per lo più alla pubblicazione di libri di fantascienza), ci presenta una ricchissima serie di riproduzioni di manifesti cinematografici di film dell'orrore e di fantascienza: dagli anni venti, con i classici dell'espressionismo tedesco (Il gabinetto del dottor Caligari, Il Golem, Nosferatu il vampiro) fino alla fine degli anni sessanta (2001: Odissea nello spazio).

Su queste patinate e coloratissime pagine, in pratica, c'è l'intera storia di due fondamentali "generi" cinematografici: dal momento che il periodo suddetto comprende, oltre che alcuni capolavori in assoluto, le due più fertili stagioni della storia del cinema horror (quella dell'americana Universal negli anni trenta e quella dell'inglese Hammer Film negli anni sessanta), nonchè quegli anni cinquanta nel corso dei quali videro la luce, fra un'orgia di mostri, di lucertoloni supervitaminizzati e di pupazzi di ogni genere, anche tutti quei film che segnarono l'ingresso della fantascienza cinematografica nella sua maggiore età (da La guerra dei mondi a La "cosa" da un altro mondo, da Ultimatum alla Terra a Cittadino dello spazio, da L'invasione degli ultracorpi ad Assalto alla Terra).

Che il libro (versione italiana di una edizione americana) sia esente da difetti, non mi sentirei proprio di affermarlo: molte cose testimoniano di una deplorevole superficialità, sia da parte dell'autore (tale Ronald V. Borst, che mi pare possegga, del vero collezionista, tutto il fanatismo ma non il rigore e la puntigliosità) sia da parte dei curatori italiani (c'è una certa generosità di errori di stampa, e certe traduzioni che gridano vendetta: che senso ha, per esempio, parlare indiscriminatamente, fin dalla copertina, di "locandine", quando poi la maggior parte delle illustrazioni sono riproduzioni di manifesti, e si sa, poichè lo si dice esplicitamente a pag. XV dell'introduzione, che in Italia la "locandina" è un'altra cosa?).

Tuttavia, la qualità della stampa è eccellente, e la documentazione iconografica ricchissima; per di più, di tentativi in questa direzione l'editoria italiana, finora, ne ha sempre fatti pochi e male. Tutte ragioni che mi sembrano ampiamente sufficienti per segnalare e raccomandare Immagini sepolte a chi di dovere.

Piuttosto, perchè occuparcene in questa sede, anzichè abbandonarlo a Giulio C. Cuccolini per una più sommaria citazione nello "Scaffale"?

Le ragioni sono molteplici, e vanno ricercate soprattutto, oltre che nel mio amore per il cinema in genere e per i "film dell'orrore" in particolare, nel complesso di vincoli e di parentele che uniscono fra di loro da un lato la narrativa illustrata (i libri, i pulp magazines , i fumetti, i fotoromanzi) e dall'altro, per l'appunto, il cinema (e la pubblicità cinematografica): in un gioco di rimandi e di reciproche influenze che perdura ormai da quasi un secolo, e che testimonia dell'esistenza di un'unica fonte di ispirazione, da ricercarsi presumibilmente nell'insondabile serbatoio dell'immaginario collettivo.

Vedere per credere: moltissimi manifesti americani, soprattutto di film degli anni del muto, aderiscono così perfettamente ai codici illustrativi della coeva letteratura popolare che potrebbero tranquillamente essere scambiati, se non ci fossero delle scritte e dei lettering rivelatori, per copertine o illustrazioni interne di Argosy, di The All-Stories, di Amazing Stories o di Weird tales.

Parentesi aperta. Perdonate, non sto a dilungarmi sulla storia dei pulp magazines, che presumo sia già nota alla maggior parte di voi. Diciamo, comunque, che si tratta di una forma di editoria a basso prezzo che dilagò negli Stati Uniti a partire dal 1896, occupando più o meno tutti gli spazi della letteratura d'evasione, dall'avventura poliziesca a quella della "grande frontiera", dalla novella gotica al racconto di fantascienza. Con molte illustrazioni, di solido gusto popolare, e con testi tutt'altro che dozzinali (vi nacque, tanto per fare un esempio, il Tarzan of the Apes di E. R. Bourroughs; vi giunsero negli Stati Uniti, dalla natia Inghilterra, le opere di H. G. Wells; e vi debuttarono, fra i tanti, H. P Lovecraft e Ray Bradbury). Anticipando e quantomeno ispirando le "dispense" dei nostri editori (Nerbini & compagnia), che all'inizio non si peritarono di saccheggiare tutto quel ben-di-Dio di personaggi (Nick Carter, Petrosino, Buffalo Bill), salvo poi proseguirne le avventure in modo autonomo, in una interminabile serie di pubblicazioni illustrate per lo più da Tancredi Scarpelli. Parentesi chiusa.

Certo, si potrebbe sostenere che questa stretta parentela fra i manifesti cinematografici e le illustrazioni della narrativa popolare (e potremmo benissimo includere in quest'ultima categoria le copertine dei primi comic-books ) è favorita anche dall'affinità dei contenuti: nel senso che, quando si gira intorno ad una serie limitata di situazioni mozzafiato (il mostro, l'assassino, la vittima inerme ed ignara, la donna seminuda e legata, due occhi strabuzzati, un bestiolone gigante) non ci si deve sorprendere se poi ci si pesta i piedi a vicenda.

Questo è vero, ma non del tutto. Alla base c'è, come sempre, una questione di pelle: nel senso che ogni Paese del mondo, in ogni momento della propria storia, è portatore di un gusto e di una sensibilità contingente che ne connotano senza possibilità di equivoci la formazione genetica, o, se preferite, la cultura.

Il volume di cui stiamo parlando ce ne offre una controprova. Al di là di certi itinerari comuni (come il progressivo passaggio dal disegno alla fotografia), vedete la grande differenza che c'è tra i manifesti americani (o dei film americani) e quelli europei (o dei film europei). Mentre, nella maggior parte dei casi, i primi rimandano alle icone popolari già dette, o comunque ad una raffigurazione naturalistica e a suo modo accademica delle facce dei protagonisti o di una scena del film, i secondi, pur nello svolgimento del medesimo tema, si aprono ad uno sperimentalismo molto più temerario, rimandando di volta in volta alle stilizzazioni delle varie avanguardie che attraversano i percorsi dell'arte figurativa del Novecento (dal liberty al déco, dal futurismo al cubismo).

E' quasi inevitabile, così, che i manifesti de Il gabinetto del dottor Caligari rimandino direttamente all'espressionismo (sia nella struttura compositiva che nella scelta dei colori, che sembrano quelli di un quadro di Nolde); o che quelli de La belle et la bête di Cocteau rimastichino temi e atmosfere surrealiste. E che dire del sorprendente richiamo all'iconografia simbolista del manifesto di Dead of night, uno straordinario film britannico del 1945, mai uscito in Italia?

Ma perchè, perchè, frammezzo a tante icone così fascinose, non si trova il minimo accenno all'identità dei loro autori? Le sembra serio, signor Borst, che un collezionista di immagini non si domandi a chi sono dovute quelle immagini? E' vero che, soprattutto fra quelle americane, ce ne sono pochissime che siano firmate: ma mi pare strano che il signor Borst non sappia che esistono fior di riviste e di fanzines specializzate, sulle quali si scopre, ad esempio, che la maggior parte dei manifesti dei film di fantascienza americani degli anni cinquanta sono dovuti sì e no ad un paio di persone. Che, per la cronaca, rispondono ai nomi di Albert Kallis e di Reynold Brown; ma che, per quanto mostra di saperne lui, potevano anche chiamarsi Saul Bass o Henri de Toulouse-Lautrec.

Ed è proprio questo il punto: quello dell'affiche è un territorio che non di rado è stato visitato, negli ultimi cento anni, da personaggi di tutto rilievo, operanti in territori limitrofi (la pittura, l'illustrazione, la grafica, la fotografia). E quasi nessun "predatore di immagini perdute" (compresi i curatori della bella e documentatissima Storia del cinema della De Agostini) si è preoccupato finora di intraprendere una ricerca organica in questo senso: ricerca che potrebbe riservare delle sorprese affascinanti.

Forse nel nostro piccolo, se voi siete d'accordo, potremmo fare qualche tentativo in questa direzione. Finora, in questa rubrica, ci siamo occupati esclusivamente di illustrazione dei libri; ma nulla osta che ogni tanto ci alziamo in punta di piedi e diamo una sbirciatina al di là della siepe: servendoci dell'illustrazione come di un ponte che collega fra di loro due territori a noi cari, come la letteratura ed il cinema, e cercando di scoprire qualcosa su coloro che, alla fin fine, sono i primi responsabili di almeno una parte dei nostri sogni.

Poichè non c'è dubbio che, se abbiamo imparato ad amare il cinema, è stato anche grazie alla seduzione che esercitavano su noi le figure dei manifesti. Scagli la prima pietra chi non ha mai sognato davanti a una Jane Russell o una Marilyn Monroe a formato naturale, o non ha mai desiderato di rubare un affiche, come il protagonista del truffautiano Effetto notte.

Come dice Stephen King nella sua introduzione ad Immagini sepolte, "se un film è un sogno, il manifesto cinematografico è il sogno di un sogno".

(Comic Art, aprile 1994)

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