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LA PRESENTAZIONE DI UGO GREGORETTI (Roma, 11 Marzo 2003)

E' forse la prima volta che mi accade di presentare un libro che mi sia veramente piaciuto, che non mi abbia mai annoiato ma anzi divertito, interessato, intrigato dal principio alla fine come questo "Dissolvenza incrociata" di Corrado Farina, che io piuttosto chiamerei "Dissolvenze incrociate", e poi dirò perché.

E' forse la prima volta che mi accade perché quando si accetta di presentare un libro, quando io accetto di presentare un libro, non lo faccio per amore del libro, che in genere non ho letto, ma per amore di chi l'ha scritto, che in genere è un amico che stimo e del quale conosco poco o nulla la produzione letteraria. Né lo faccio "con riserva", per usare una locuzione molto in voga in questi giorni: non dico cioè "prima lo leggo e poi ti dico se lo presento o no", che mi parrebbe una villania imperdonabile, e quindi rispondo sempre di sì, sulla fiducia, al buio. A causa di questa remissività un po' ipocrita, di questo non saper dire di no, mi è toccato più volte di leggere con la massima attenzione scritti rispettabilissimi ma implacabilmente noiosi, e di costringermi a provare nei loro confronti il massimo interesse possibile, onde poterne poi parlare positivamente in pubblico con cognizione di causa e senza mentire... uno sforzo acrobatico spossante!

Grazie quindi a Corrado Farina per avermi risparmiato questi contorcimenti. Il suo libro, come si diceva una volta, si legge d'un fiato, pur essendo complesso, molto astutamente complesso. Un libro multipiano, come un parcheggio metropolitano, dove convergono e si intrecciano diverse trame, o meglio si incrociano (per rispettare la metafora del titolo), dissolvendosi continuamente l'una nell'altra.

La trama portante è quella di un racconto giallo, ma di quel giallo peculiarmente torinese, colto, ironico e multidisciplinare, nel rispetto dei canoni fissati a suo tempo dai padri fondatori Fruttero e Lucentini con "La donna della domenica". Ma "Dissolvenza incrociata" è un libro fatto di più libri, che si introducono l'uno nell'altro con aerea leggerezza: è un romanzo giallo contemporaneo ambientato negli anni Cinquanta, ma anche un feuilleton dumasiano di cappa e spada; è il backstage di un film avventuroso in costume che si gira a Torino, "Il figlio di Scaramouche", ma può essere anche letto come un manuale di tecnica cinematografica in forma romanzata, usabile come libro di testo per chi volesse imparare il mestiere del cinema; è un catalogo vivacissimo ed etnologicamente impeccabile degli oggetti simbolo dei cosiddetti - impropriamente detti - "favolosi anni Cinquanta": la Vespa, i flipper, il gelosino, il piccolo registratore marca Geloso, e ancora un fedelissimo ritratto della Torino di quegli anni, scorci di una società borghese educata e schizoide, interni-giorno familiari dove i padri parlano di affari e i figli cantano le canzoni eversive dei Cantacronache con testi di Italo Calvino, esterni-notte in cui regna la solitudine di una Torino metafisica e desertica, dove le curve barocche del Guarini e dello Juvarra convivono con le rigidezze del razionalismo classicheggiante di Piacentini.

Ho usato volutamente le due formule "interno-giorno" ed "esterno-notte", con le quali vengono indicate nei copioni cinematografici le ambientazioni delle scene, per fare un po' il verso a Corrado Farina, il quale pur costruendo un romanzo che è pura letteratura scritta, autentica narrativa destinata unicamente alla lettura, non tributaria di alcun altro mezzo espressivo, non dimentica mai di essere anche uomo di cinema, sua seconda natura piuttosto che secondo mestiere, e si concede alcuni slittamenti civettuoli dalle convenzioni dell'uno a quelle dell'altro specifico, scrivendo a lettere maiuscole "fine del primo tempo" alla fine della prima parte del romanzo, e "secondo tempo" all'inizio della seconda parte. Oppure spiegando che il dialogo circospetto e misterioso tra due personaggi-chiave del thrilling, di cui si percepiscono i gesti ma non le parole, non può essere a quel punto comprensibile per il lettore non perché si anticiperebbero delle rivelazioni che vanno conservate per il finale ma perché i due personaggi dialogano in "campo-lungo", cioè molto lontano dall'obiettivo e dai microfoni di una ripresa cinematografica. Del resto ho già detto che uno dei libri che questo libro contiene e ... con gli altri, è un manuale di cinema, che si potrebbe chiamare "il Farina", così come si dice "il Mereghettti", "il Morandini" o altri; anzi, è forse meglio di qualsiasi manuale scolastico vero e proprio, perché si fonda su un didatticismo pragmatico e semplice ma anche emozionante, calato come è con grande abilità nel racconto. Si spiega perfino, tra un colpo di scena e l'atro, tra un morto e l'altro, come unendo quattro camerini comunicanti di un teatro di posa si può ottenere lo spazio di una sartoria o di una sala trucco. Di questo manuale - insisto - consiglierei la lettura a tutti gli aspiranti cineasti. E dirò di più: anch'io ho imparato qualcosa che non sapevo; non sapevo per esempio nulla sui colpi di arma da fuoco nel cinema, non avendone mai fatto uso nei miei film e negli sceneggiati televisivi che ho diretto; né sui colpi cosiddetti "in partenza" o su quelli "in arrivo", su quanto sia delicato e pericoloso caricare a salve e far sparare le pistole del Settecento, o ricevere un colpo in arrivo, con piccola carica esplosiva che scoppia sulla camicia all'altezza del cuore e con simultanea rottura teleguidata di una vescichetta piena di sangue di bue. E quanto tutto questo diventi ancor più pericoloso quando sul set di un film di cappa e spada si aggiri qualcuno che si prefigge di far sì che quelle armi museali ma ancor perfettamente funzionanti vengano usate per fare la pelle a qualcun altro, come accade nel libro quando l'assassino - ovviamente di nascosto - aggiunge alla polvere da sparo la riproduzione di una pallottola di piombo settecentesca anch'essa perfetta, di quelle che il maestro d'armi tiene chiuse a chiave - conscio della loro potenziale pericolosità - lontanissimo dalle pistole, e che vengono usate quando occorre filmare un dettaglio ravvicinatissimo del proiettile, per esempio quando lo si estrae con rudimentali pinze dalle carni sanguinanti dell'eroe ferito grave. Così l'inconsapevole attore che interpreta il personaggio del cattivo uccide sparando - egli crede a salve - all'eroe del film, che poi è anche in un certo senso l'eroe del romanzo.

Però qui mi fermo con i riferimenti alla trama, perché mi sono proposto di non parlare del contrafforte giallo di "Dissolvenza incrociata", che è quello più robusto, che tiene in piedi tutto l'architettamento affabulatorio e gli dà slancio e unità, permettendogli di incrociare - la lingua batte dove il dente duole - senza danno alcune cesure che a prima vista paiono divagatorie ma non lo sono affatto, perché alla fine tutto si tiene e tutto torna. E sono questi versanti tematici paralleli che mi rallegrano di più, queste foglie pungenti che avvolgono il nucleo dl racconto come il cuore di un carciofo.

Per esempio, per continuare a divertirci con le tinte, quello che chiamerei il contrafforte rosso del romanzo giallo, ovverossia il colore dei capelli di Scarlet, giovane eroina della storia e detective dilettante, che illuminano di barbagli rossastri di matrice irlandese tante pagine del libro. Scarlet è nata da madre irlandese e padre torinese proletario, entrambi defunti, quindi doppiamente grintosa; il suo nome è Maria Consolata, ma la madre, che aveva un culto speciale per "Via col vento" versione cinematografica l'aveva soprannominata Scarlet come l'eroina del film. Il padre era stato custode di un vecchio stabilimento cinematografico, ormai diventato un rudere, dove Scarlet è nata e tuttora vive circondata da cani e gatti (non si dimentichi che Torino fu una delle capitali mondiali del cinema muto). Scarlet ha perciò il cinema nel sangue. Il suo cane prediletto è una femmina di pastore maremmano che si chiama Assia, perché è nata il giorno in cui Scarlet aveva visto "Il signor Max", un vecchio film interpretato dall'attrice slavo-romanesca Assi Noris, una delle regine dei telefoni bianchi e capricciosissima moglie del regista Mario Camerini, se non sbaglio. Anche Scarlet è alquanto capricciosa, ma di una capricciosità alternativa, che sembra prefigurare certi atteggiamenti sessantottini in una Torino operaia dominata ancora dal professor Valletta e dai sindacati gialli tristemente famosi.

Scarlet ha visto una marea di vecchi e nuovi film, più i vecchi che i nuovi per ragioni economiche, nelle sale parrocchiali e in quelle di quartiere. Il suo attore più amato è l'americano Robert Douglas, celebre interprete di film di avventure in technicolor, che le sorride giorno e notte da un manifesto appeso al muro della sua stanza. Nonostante questo è molto intelligente, e nonostante che faccia di tutto per nasconderlo è anche molto bella; però si veste come un "barabba", avrebbe detto mia madre, insomma anche in questo sembra precorrere i tempi. E' una tipica cinéphile torinese ante litteram, precorritrice arcaica delle molte studentesse del DAMS che oggi affollano le proiezioni del Torino Film Festival Giovani. E come le più ardite e assatanate di cinema tra queste riesce a infiltrarsi in una delle rare troupes cinematografiche che alla fine degli anni Cinquanta venivano ancora a Torino per girare dei film. Del cast di questo film fa parte il suo mito, Robert Douglas, che muore quasi subito in circostanze misteriose (ma non è il primo a morire ammazzato in questo fosco thriller, il primo è un cavallo). Ed è forse la consuetudine con le trame cinematografiche che aiuta Scarlet a scoprire il movente dei delitti che maturano all'interno della troupe nelle nove settimane e mezzo di lavorazione dentro un teatro di posa, le classiche unità aristoteliche di tempo e di luogo.

E qui mi fermo per davvero, e dopo i non pochi e motivati elogi che gli ho indirizzato rivolgo per concludere a Corrado Farina un modesto rimprovero. Nella fedele e accuratissima rappresentazione tipologica dei diversi membri della comunità cinematografica in trasferta a Torino, l'autore a parer mio calca un po' la mano nel ritratto iperbecero e iperromanesco del produttore Parolini, il quale non riesce a pronunciare sillaba che non sia in romanaccio spinto e a proporre soluzioni produttive di ripiego che non siano allucinantemente trucide. Tuttavia gli perdono questo peccato in fondo veniale, perché ho operato a lungo a Torino e conosco bene i torinesi, e quel piccolo demone antiromano che si nasconde insopprimibilmente nelle fibre più intime dei loro sentimenti. Penso che anche nell'animo di Corrado sia scattato quel demonietto, del quale a suo tempo anch'io ho fatto le spese. Quando dirigevo il Teatro Stabile di Torino (e sto concludendo), venivo spesso citato dai giornalisti e da La Stampa, con l'appellativo di "regista romano": "il regista romano ha detto", "il regista romano ha soggiunto", e sapevo benissimo che il fine era di suscitare intorno a me una certa antipatia. E allora scrissi a "Specchio dei Tempi", la storica rubrica della Stampa, una lettera indirizzata ai cronisti del quotidiano in cui più o meno dicevo: "Ma perché quando intervistate me dite sempre "il regista romano", mentre invece quando intervistate il vostro padrone, Cesare Romiti, che è un romano assai più greve di me, non scrivete mai "l'amministratore delegato romano ha detto", "l'amministratore delegato romano ha soggiunto"?". Quella lettera non fu mai pubblicata, però da allora non venni mai più qualificato "regista romano" ma regista tout court. Forse perché la lettera conteneva un post-scriptum che più o meno diceva: "Se non la piantate con questa storia del "regista romano", spedirò una copia di questa lettera all'Unità, al Messaggero, al Manifesto, a Repubblica e all'Ansa.

Ugo Gregoretti


 

DALLA PRESENTAZIONE DI ITALO MOSCATI (Roma, 11 Marzo 2003)

Bene, siamo stati fortunati perché Ugo Gregoretti non ha soltanto fatto una recensione - come si dice in questi casi - di un libro, un semplice intervento di lettore attento di questo volume che si chiama "Dissolvenza incrociata": ci è andato proprio dentro, e ci è andato dentro come sanno fare quelle persone che si appassionano alla lettura e ci riescono anche a leggere dei fatti che li riguardano personalmente. Quindi mi solleva da tantissimi compiti, quello di raccontare la storia, di raccontare il rapporto tra il cinema e questo libro, e anche lo sfondo in cui questa vicenda si svolge. Ci sono state citazioni pertinentissime, come quella su Fruttero e Lucentini a proposito della "Donna della domenica", un giallo che è stato anche portato al cinema da Luigi Comencini, che è stato ripubblicato e che ogni volta che si rilegge non finisce di stupire. E' stato ricordato anche il contesto dei favolosi anni Cinquanta, che è una delle cose che mi ha colpito leggendo il libro; e anche quella definizione che chiama in causa il feuilleton, che mi sembra in questo caso molto adatta per spiegare certi aspetti del libro.

Io, proprio perché questo terreno è stato preparato così bene, volevo fare un ragionamento di altro tipo. Ha detto Gregoretti che alle volte si sceglie di presentare un libro per amore dell'autore. Beh, io l'ho anche scelto per amore del cinema, nel senso che il rapporto che c'è fra me e Corrado Farina nasce in un modo curioso: io avevo visto un suo bellissimo documentario intitolato "Cento anni di cinema", con Vittorio Gassman che faceva da guida, e si basava proprio sullo scambio continuo tra attori e pubblico, tra schermo e platea. E da lì mi venne l'idea di proporgli un racconto degli anni Cinquanta insieme a uno storico, che in questo caso però non avrebbe dovuto scrivere il testo ma mettersi accanto a Corrado per collaborare con lui, dandogli tutti gli elementi e i materiali possibili per la costruzione di un racconto televisivo. La presenza del cinema si è inserita prepotentemente anche nelle dieci puntate dedicate agli anni Cinquanta, secondo me molto belle, che incominciavano ogni volta con l'ingresso - preso da un film dell'epoca - di alcuni personaggi in una sala cinematografica, e poi da lì incominciava la storia degli anni Cinquanta, degli oggetti, dell'epoca, di tutte cose che voi sapete molto bene.

Lì e qui, in quel documentario "Epoca: gli anni Cinquanta" e in "Dissolvenza incrociata", io vedo la storia di una intera generazione: e cioè quella generazione che ha sostituito la realtà con il cinema. Oggi uno studioso come Jean Baudrillard parla di un mondo in cui oramai non dominiamo più il reale, confortato in questo anche da un altro sociologo che parla addirittura di un "deserto del reale", perché tutto quello che vediamo è immagine che sostituisce l'esperienza diretta. Corrado Farina appartiene a una generazione che sta a metà strada fra coloro che hanno visto il cinema nelle sale e coloro che lo hanno visto invece in televisione, in cassetta, DVD eccetera. Sembra una differenza da poco, e invece è una differenza fondamentale. Tanto per citare un altro libro, di un critico bolognese molto fine e attento, Renzo Renzi, intitolato "La sala buia", si può dire che il cuore di Corrado Farina come autore e come letterato nasce nel cuore della sala buia.

La sala buia non è solo il luogo in cui ci si siede davanti a uno schermo su cui passano immagini di cui ci innamoriamo perché sono immagini seduttive e appassionanti; è anche una grande forma di psicanalisi leggera, chiamiamola così, cioè noi siamo costretti a individuare i nostri sogni, i nostri incubi, i nostri desideri, a misurarci nel buio, come se fosse un sogno a occhi aperti. E l'insistenza che Corrado mette nell'inserire il cinema nelle cose che fa è chiaramente un lancinante bisogno non soltanto di fare del cinema ma di stare dentro questa sala buia per, attraverso il cinema, vedere meglio gli altri, vedere meglio questa realtà che sembra scomparsa, vedere meglio se stesso.

Da un certo punto di vista si può considerare "Dissolvenza incrociata" un bel racconto divertente di scambio tra realtà e finzione, tra cinema e fatti, con un delitto che doveva essere immaginario e poi diventa invece reale. Ebbene, questa lettura forse penalizza un po' il libro, forse lo porta in una direzione di ricerca di strumenti suggestivi sulla pagina, di situazioni che fanno appello a certe cose che hanno sempre avuto per noi un valore, il divismo, la scena, il backstage, il set, gli attori, l'attenzione che la gente normale ha per il mondo della pellicola, tutto il sogno della prima parte del Novecento. Però, ecco, appunto qui sta secondo me la chiave del libro, Corrado Farina non appartiene alla prima parte del Novecento, non è vissuto all'epoca in cui c'era "Cabiria" di D'Annunzio, oppure, come scrive Dos Passos, quando c'è stato il funerale di Rudy Valentino a New York e l'intero Paese si fermò, non ha attraversato il cinema dei telefoni bianchi, quando le potenze totalitarie, il nazismo o il fascismo (ma anche il comunismo sovietico), usarono il cinema come grande forma di creazione del consenso. Si colloca in una dimensione in cui l'aspetto ideologico svanisce, e viene fuori prepotentemente il bisogno di misurare l'esperienza individuale con la straordinaria esperienza collettiva del cinema.

E qui viene fuori un senso che potrebbe sembrare di frustrazione: Corrado Farina è un regista che ha fatto pochi film poiché non gli sono state date le opportunità di continuare la propria attività, e glie ne deriva un bisogno urgente di raccontare il cinema attraverso la scrittura, come se la pagina potesse restituirgli l'emozione, il senso della creatività, il puntiglio inventivo che il cinema gli avrebbe potuto dare. Al di là del gusto di raccontare una storia tutto sommato semplice, perfino in qualche caso ovvia, io ho sentito una specie di rabbia che è quella che dà sostanza e forza al libro: ci riporta in realtà a una ossessione - un regista famoso ha parlato del cinema come "magnifica ossessione" - , qualcosa che rimbomba nella testa, nelle orecchie, soprattutto negli occhi, da cui non ci si può liberare perché è la passione che ci delude, che non possiamo raccontare perché non ci viene data la possibilità di farlo.

Forse qualcuno avrà visto il film con Robert De Niro tratto dal celebre romanzo di Scott Fitzgerald "Gli ultimi fuochi": c'è una scena straordinaria in cui un giovane produttore (innamorato del suo mestiere ma insoddisfatto della sua attività prevalentemente industriale, in cui avverte di perdere le proprie qualità umane) descrive a uno sceneggiatore come si immagina una scena. Ecco, io leggendo questo libro di Corrado ho trovato interessante, al di là del meccanismo del giallo (che forse può risultare prevedibile per gente magari un po' smaliziata nelle letture dei romanzi gialli), proprio l'elemento personale. Io ci ho visto il Corrado Farina regista: è lui che fa i ciak, è lui che nell'inventare - come ha giustamente rilevato Gregoretti - la fine del primo tempo e l'inizio del secondo tempo, ci offre non un surrogato di film ma un esasperato e anche disperato bisogno di esprimersi attraverso le convenzioni cinematografiche, che in questo caso non sono fatte di celluloide ma di parole.

(...)

Italo Moscati