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DOTTOR RUBINO E MISTER HYDE

Che resti fra di noi, ma personalmente non sono mai riuscito ad amare, nel modo viscerale e assoluto che si impone a ogni amore, quello straordinario giornale che fu il Corriere dei piccoli. Forse perchè lo conobbi e lo frequentai solamente nel dopoguerra (quando il fumetto vero e proprio aveva ormai acquistato anche in Italia diritto di cittadinanza), le vignette mute con gli ottonari al piede mi sembrarono scritte in un linguaggio alieno o quantomeno obsoleto. Bisognò aspettare il trascorrere degli anni, e il formarsi di un gusto figurativo più adulto, perchè mi rendessi conto che il Corrierino era stato un incredibile vivaio di maestri della grafica e dell'illustrazione, e che aveva ospitato quasi tutti i maggiori figurinai del nostro primo mezzo secolo, i Brunelleschi, i Terzi, gli Scarpelli, i Gustavino, i Mussino, i Bisi, i Manca, gli Angoletta; e i più grandi di tutti, Sergio Tofano e Antonio Rubino.

Anche da un punto di vista quantitativo, i contributi di questi due autori furono i più ragguardevoli di tutta la storia del Corriere dei piccoli; ma mentre il primo portò avanti in modo quasi esclusivo le avventure del signor Bonaventura, Rubino creò una quantità impressionante di personaggi diversi, finendo per essere identificato non tanto con uno di loro quanto con il segno grafico che tutti li accomunava: quel segno riccioluto di tarda derivazione liberty che meritò l'esplicito tributo di Federico Fellini e del suo Giulietta degli spiriti.

Ma del Rubino "per bambini" si è già parlato troppe volte perchè ci si debba tornare sopra, soprattutto su una rivista i cui lettori si suppongono essere, in fatto di tavole disegnate, tra i più acculturati. Non sembra inutile, invece, parlare di un secondo Rubino, molto meno conosciuto del primo, la cui complessa fisionomia si intravede già, in filigrana, nella vena sadica e surreale di molte storie del Corriere dei piccoli, ma che viene allo scoperto solo in un paio di contesti diversi: un libro del 1911 intitolato Versi e disegni (da lui scritto e illustrato), e un cospicuo numero di quadri a tempera, di proprietà di vari collezionisti ed eredi, dei quali finora si ignorava pressochè l'esistenza e che solo recentemente sono stati riuniti e presentati come corpus organico in un paio di mostre (a Sanremo nel 1995 e a Lucca nel 1996).

Il Rubino di cui stiamo parlando è una specie di mister Hyde tormentato e beffardo, nascosto dietro alla gioconda facciata dell'autore per fanciulli e alla deriva tra le correnti culturali della fine Ottocento e del primo Novecento. In questa ribalda e scatenata navigazione tra gli "ismi", egli incontra e strizza l'occhio a Baudelaire e a Marinetti, a Huysman e a D'Annunzio, a Beardsley ed a Munch. Le tematiche decadenti e simboliste si insaporiscono così degli scoppiettii di un'ironia di ispirazione futurista (se non addirittura pre-dadaista), mentre gli stagni, i castelli e gli altri luoghi topici della letteratura tardoromantica si popolano di un popolo fantabiologico di mostri e di mostricattoli, e dalle occhiaie vuote dei teschi germogliano fiori e fuoriescono farfalle.

Questa singolare contaminazione fra temi e cadenze antitetiche appare particolarmente evidente in Versi e disegni, che è un libro pochissimo noto al di fuori del mondo del collezionismo, poichè, al contrario di altri libri di Antonio Rubino, non è mai stato ristampato se non parzialmente e in edizione limitata. In esso, l'autore utilizza il suo inconfondibile segno grafico per illustrare, anzichè i riccioli dei bimbi e gli arredi di un mondo pacioccone, tutta una serie di gnomi, mostri e creature di un modo incubico, citando e al tempo stesso stravolgendo le iconosfere tardoromantiche di un Füssli, quelle sensuali di un Beardsley, quelle simboliste di un Redon. Quanto ai componimenti poetici, essi sono talvolta scopertamente ironici, indulgendo a funambolismi verbali che strizzano l'occhio alle marinettiane "parole in libertà" ("...Nullo senso in quel mugghio si distingue / e crani e zucche come casse croie / rimbombano a quel vasto vanilingue / squaquaràr di squarquàttole squarquòie...."). Più sovente, il tono si fa cupo, lirico, melodrammatico, toccando temi tipicamente tardoromantici come la morte e la decomposizione della materia ("Io muoio. Un pullular di bestie oscene / mi bacia con le sue bocche seguaci: / gelide bocche come di batraci: / livide bocche come di sirene"). Tuttavia, non si riesce mai veramente a capire quanto l'autore "ci sia" e quanto "ci faccia", e cioè fino a che punto si prenda veramente sul serio, poichè accumula motivi lugubri e decadenti in tale quantità da far nascere il sospetto che i suoi versi sottendano un'ironia molto più sottile ed occulta di quanto a prima vista non sembri.

Se comunque gli argomenti e i moduli espressivi (sia grafici che poetici) di Versi e disegni si possono agevolmente ricondurre alle mode culturali dell'epoca in cui esso è nato, è singolare il fatto che gli stessi temi e gli stessi moduli ritornino in molti dei quadri a tempera, che Rubino realizzò invece in un arco di tempo lunghissimo, che arriva praticamente fino al 1964, anno della sua morte.

Che c'è di nuovo, nelle opere pittoriche? Essenzialmente, il colore. La tavolozza è quella ricchissima e squillante del Rubino "per bambini", e l'uso della tempera a campiture piatte rimanda direttamente da un lato ai pochoir delle sofisticatissime riviste francesi dell'epoca e dall'altro alle tavole del Corriere dei piccoli. Solo che in questi quadri non ci sono nè le eleganti donnine di Brunelleschi e di Barbier nè i buffi personaggetti del Corrierino, ma creature inquietanti e incubiche che si fanno portatrici, in modo ancora più diretto e scoperto che in Versi e disegni, di tematiche di gusto mortuario e simbolista.

Così, ad esempio, ne Il destino un gigantesco uomo-robot tiene sul palmo della mano un gruppetto di sparuti esseri umani, e si accinge a recidere con un paio di cesoie l'ultimo cordone ombelicale che li tiene uniti a un mondo devastato; ne Il rimpianto un uomo viene trascinato verso un precipizio da una mano scheletrica ; ne La noia una creatura altissima e orrenda sta per annegare un uomo nell'acqua limacciosa di uno stagno, sotto un cielo che gronda fango.

Anche se non tutti i suoi quadri sono così terrificanti ed espliciti, il Rubino pittore naviga quasi sempre su una rotta esistenziale pessimistica e senza speranza, che da un lato si ricollega a tematiche espressioniste e simboliste di gusto nordico (i primi codici di riferimento che vengono in mente sono quelli delle opere grafiche di Munch e di Redon) e dall'altro le contraddice e le riscatta con la squillante allegria dei colori. Come se non bastasse, egli immette costantemente nei soggetti più inquietanti, quasi ad esorcizzarne e a farsene perdonare la drammaticità, dei particolari oltraggiosamente allegri: come il ranocchio che in un angolo de La noia sventola allegramente una raganella, e che sembra uscito direttamente da Nel paese dei ranocchi, il cortometraggio a cartoni animati realizzato da Rubino tra il 1940 e il 1942.

E allora? Siamo di fronte a un complesso mondo onirico tormentato da un'autentica angoscia esistenziale o a un'intelligente e divertita parodia di temi e modi culturali dell'inizio del secolo? La cosa rimane dubbia, e questo dubbio è proprio la spezia che più insaporisce il nostro Rubino-Hyde: un artista che è ormai tempo di riscoprire, se non altro per restituirgli parte di quella fama che gli è stata usurpata finora dal Rubino-Jekyll del Corriere dei piccoli.

(Comic Art, febbraio 1997)

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