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EMILIO SALGARI, DENTRO E FUORI

Guardiamoci negli occhi: chi di noi non ha avuto fra i suoi primi compagni di gioco, oltre che il cugino, il compagno di scuola o il figlio del fattore, anche la Tigre della Malesia, la Scotennatrice e il Corsaro Nero? Chi non ha condiviso almeno un tratto del suo percorso adolescenziale, oltre che con gli amici della porta accanto (Andrea, Francesco, Michele, nomi familiari e rassicuranti di un' Italia non ancora devastata dalla conquista del benessere e dalla nevrosi del superfluo), anche con personaggi dai nomi più inconsueti, e talvolta inquietanti: Sandokan, Minnehaha, Yanez de Gomera, Enrico di Ventimiglia?

E' vero: quando diventammo più grandi, questi compagni della nostra infanzia e della nostra adolescenza li perdemmo un poco di vista, poiché conoscemmo, sulla strada della fantasia e dell'avventura, altri personaggi, che si chiamavano Lemuel Gulliver, Robinson Crusoe, Gordon Pym, Martin Eden. Personaggi non meno affascinanti dei primi, e molto più complessi di loro, con cui ci intrattenemmo volentieri, cercando di capirne i problemi e di confrontarli con i nostri; mentre qualcuno ci spiegava che questa sì, era letteratura, mentre quella di Emilio Salgari non era altro che un teatrino dei pupi, su cui agivano dei burattini schematici e rozzi.

Sarą tutto verissimo. Ma questo teatrino dei pupi fu, per molti di noi, il primo grande amore letterario: e poiché il primo amore - è noto - non lo si scorda mai, non fa meraviglia che l'uomo adulto di oggi vada alla ricerca, fra tante altre cose del tempo perduto, anche di quei burattini che furono fastosi compagni di gioco dell'adolescente di ieri; rammaricandosi non poco della sistematica lapidazione (o nel migliore dei casi dell'oblìo) a cui essi, dal dopoguerra in poi, sono stati sistematicamente sottoposti.

Per la veritą, ci fu un gran fuoco di paglia di interesse per Salgari alla fine degli anni sessanta, in sospetta corrispondenza con lo scadere dei diritti d'autore sui suoi romanzi: l'edizione critica e annotata curata da Mario Spagnol per la Mondadori, e la "quasi opera omnia" dei fratelli Fabbri sembrarono per un certo periodo riportare alla luce del mondo l'ombra infelice del capitano. Ma quei suoi romanzi così immediati, umorali e sanguigni, si dimostrarono inadeguati a reggere il peso della prima iniziativa (che infatti si arenò prima di riuscire a raggiungere i venti titoli); e la seconda, per il taglio editoriale decisamente popolare e la banalitą delle illustrazioni, non andò al di lą della classica operazione editoriale "mordi e fuggi" tipica degli anni corsari che stavano principiando. (Quanto alla nuova ondata di patinatissime riletture cine-televisive realizzate negli anni settanta da Sergio Sollima e interpretate da Kabir Bedi, basti dire che riuscirono a far rimpiangere la commovente naiveté dei film salgariani dell'epoca bellica; ma questo è tutto un altro discorso, che riprenderemo se mai un'altra volta).

Tuttavia, a fronte di questi segnali negativi, e in corrispondenza con il nascere di una certa critica attenta ai fenomeni della cosiddetta letteratura minore (i gialli, la letteratura popolare, il fumetto), c'è stato più recentemente un risveglio di interesse per Emilio Salgari: ne fanno fede un paio di mostre e di congressi sul personaggio, la pubblicazione di alcuni saggi critici e biografici, le recenti e ravvicinatissime ristampe del suo unico libro autobiografico (La Bohème italiana), e la stessa frequenza con cui di lui si è parlato e si parla sulle pagine di questa rivista.

Ne fa fede, infine, il rinnovato interesse di quel vasto e fluttuante popolo di collezionisti che trasmigra volubilmente, seguendo logiche e itinerari non sempre facili a capirsi, da un territorio culturale all'altro. E che da qualche tempo ha ripreso, con rinnovato ardore, a dare la caccia alle prime edizioni dei libri salgariani.

Come che sia, e facendo parte a buon diritto della schiera dei salgariani "d'annata" (gli dedicai fra le altre cose, nel remoto 1971, un cortometraggio intitolato Salgari della nostra infanzia), vorrei proporvi di seguirmi in una piccola "recherche" su un aspetto ancora poco approfondito dell'iconosfera salgariana.

Come tutte le "recherches", anche quella che ci induce a riprendere in mano i romanzi del capitano può riserbare, al di lą del fatto sentimentale, alcune piacevoli sorprese: e non tanto dal punto di vista letterario quanto da quello figurativo.

Da questo punto di vista, le prime edizioni dei romanzi di Emilio Salgari sono ancora oggi estremamente intriganti: soprattutto per via di una vistosa, e sistematica, forma di dissociazione fra il "dentro" e il "fuori" dei volumi, in forza della quale le copertine vanno in una direzione e le illustrazioni interne dall'altro, proiettandosi verso il futuro le prime e ripiegandosi verso il passato le seconde.

Vediamo di spiegarci meglio. I romanzi di Salgari (i suoi editori sono almeno una quindicina, ma fra tutti spiccano, per quantitą di titoli e per qualitą editoriale, il genovese Donath e il fiorentino Bemporad) vengono pubblicati in un arco di tempo che va pressapoco dal 1890 al 1911, anno in cui lo scrittore si toglie la vita. Coincidono quindi con l'Italia di Umberto I, di Crispi e di Giolitti, con quell'Italia che ancora non ha ben capito che cosa significhi essere un Regno Unitario, e che tuttavia sta gią ponendo le basi del suo futuro e fragilissimo impero coloniale.

E' un'Italia, insomma, irta di problemi e di contraddizioni. Tanto per fare qualche esempio, sono gli anni in cui a Torino, fra una Esposizione Internazionale e l'altra, nascono da un lato la Confederazione Generale del Lavoro e dall'altro una fabbrichetta di automobili denominata FIAT; mentre quasi contemporaneamente, al di lą del Ticino, le regie truppe del generale Bava-Beccaris fanno fuoco sui manifestanti, ed un anarchico fa fuoco sul re d'Italia, uccidendolo.

In questa Italia, in cui Treves sforna a ritmo gią industriale le edizioni del deamicisiano e edificantissimo Cuore, e l'unico esempio di trasgressione è costituito da una irriverente fiaba di tale Lorenzini Carlo, su un burattino di legno il cui naso si allunga ogni volta che racconta una bugia, in questa Italia, dicevo, si dą per scontato che la letteratura per l'infanzia, sia nei "contenuti" che nelle "figure", debba necessariamente rispondere a esigenze di tipo didattico-pedagogico, anziché a pulsioni di tipo edonistico.

I romanzi di Salgari, per la veritą, non sono letteratura per l'infanzia in senso stretto, poiché si rivolgono a ragazzi gią grandicelli. Essi nascono piuttosto dalla sovrapposizione di altre due matrici letterarie prettamente tardo-ottocentesche: il romanzo popolare (o romanzo d'appendice), di origine prevalentemente francese (Dumas, Sue, Ponson du Terrail), e il periodico geografico-etnografico, che volgarizza e diffonde le scoperte che gli esploratori vanno facendo in quegli anni un po' in tutto il mondo (e non si può non citare almeno, fra i tanti, Il giornale illustrato dei viaggi e delle avventure di terra e di mare, edito da Sonzogno).

Mutuando le formule (e parzialmente il pubblico) di questi due ascendenti letterario-editoriali, è inevitabile che il libro di avventure ne mutui anche il tipo di illustrazioni: che in entrambi i casi (come peraltro nei libri più specificamente dedicati all'infanzia) erano costituite allora da immagini rigorosamente in bianco e nero (ottenute per lo più con la tecnica della xilografia), realizzate, impaginate e riprodotte nel modo più generico e tradizionale possibile.

Questo, paradossalmente, avveniva in netto contrasto con i contenuti dei testi, che invece lasciavano ampio margine alla fantasia (o per ambientazione esotica o per straordinarietą di situazioni), e quindi si prestavano in modo esemplare, almeno sulla carta, a un'iconosfera libera da ogni zavorra accademica e gioiosamente innovativa: mentre invece più fantasiosi e drammatici erano i "contenuti" della figura (abbordaggi, caccie alla tigre, battaglie, agnizioni, sepolture vere e fittizie), tanto più banale era il "linguaggio" visuale della stessa.

Da questa regola non si discostano i Della Valle, i Gamba, gli Amato, e gli altri illustratori dei romanzi di Emilio Salgari. Talché si può ben dire che, al di lą dell'apporto e del carattere personale dei singoli artisti (gią più volte analizzati da altri: e citiamo fra tutti Antonio Faeti, nel suo imprescindibile Guardare le figure), le illustrazioni interne delle prime edizioni salgariane si uniformano in tutto e per tutto alle regole allora imperanti sul mercato editoriale.

Senonché... senonché siamo pur sempre alla fine del secolo e all'inizio del nuovo. Vale a dire in un periodo che coincide proprio con quella rivoluzione estetica che sconvolge l'Europa a cavallo fra i due secoli, ridisegnando la mappa del gusto del vecchio continente su basi grafiche e figurative assolutamente inedite.

Vediamo di capire, anche se in modo necessariamente sommario, in che cosa consiste questa rivoluzione. Le sue premesse erano state poste cinquant'anni prima da un gruppo di pittori che nel 1848, in Inghilterra, aveva dato vita al cosiddetto Movimento Preraffaellita: una "scuola" che intendeva recuperare, quale modello per la pittura, la realtą effettiva, e non quella perfetta "riproduzione della realtą" che i grandi Maestri, da Raffaello in poi, avevano messo a punto e in qualche modo codificato: riproduzione della realtą che, diventando il punto di riferimento obbligato delle Accademie, aveva per così dire "museificato" la storia dell'arte, portandola in una specie di impasse, nella quale qualsiasi tentativo di rinnovamento diventava impossibile.

Ecco nascere allora delle singolari composizioni il cui classicismo veniva addolcito da morbide volute e da leggiadre ornamentazioni; ecco le linee gią morbide dei preraffaelliti addolcirsi ulteriormente, anno dopo anno, ispirandosi sempre più spesso alla fluiditą del mondo acquatico e di quello fitomorfo; ed eccole allungarsi fino a coprire l'Europa, piegandosi in riccioli sinuosi e assumendo, a seconda dei Pesi, denominazioni diverse ed autoctone: liberty, jügendstil, arte floreale, art nouveau.

Contemporaneamente, i nuovi codici figurativi trasmigravano dalla pittura a tutta una serie di arti applicate, quali la carta da parati, il ferro battuto, l'architettura e, naturalmente, l'illustrazione del libro.

In quest'ultimo campo, che è poi quello che qui ci interessa, fu soprattutto rilevante l'apporto del britannico William Morris, che nell'ultimo decennio del secolo teorizzò la necessitą di fare del libro un'opera d'arte, curandone non solo i contenuti ma anche la veste grafica e tipografica, e considerando il testo e le illustrazioni come facenti parte di un tutto armonico, alla pari di quanto avveniva con i codici miniati del Medio Evo. Nè si limitò a teorizzare, e mise in pratica le sue enunciazioni nei volumi stampati da una sua benemerita casa editrice, la Kelmscott Press.

Ed ecco nascere in Inghilterra e poi in Francia, sull'onda sollevata da Morris, il fenomeno del cosiddetto gift-book, o del beau livre: volumi di lusso, con belle legature editoriali e splendide illustrazioni, che all'inizio furono riservati agli adulti (e basti citare i nomi di alcuni degli illustratori più noti, come Aubrey Beardsley, Charlos Schwabe o Alphonse Mucha) ma non tardarono a invadere i territori del libro per ragazzi (con le opere illustrate da Walter Crane, da Arthur Rackham o da Edmund Dulac).

Poveretti gli editori nostrani, costretti a confrontarsi su questo terreno con la magnificanza delle edizioni inglesi e francesi...

Certo, Torino, Genova e Firenze avevano poco a che fare con Londra, Vienna o Parigi; e tuttavia, i venti della rivoluzione arrivarono a lambire perfino le remote provincie dell'Italia umbertina.

Anche i romanzi di Salgari, che andavano uscendo proprio in quegli anni, risentirono dei nuovi fermenti. Ma, fosse per ragioni economiche o fosse per una ancestrale cautela di derivazione manzoniana ("Adelante, Pedro... con juicio!"), li fecero propri solo ed esclusivamente nelle copertine (complice determinante l'evoluzione della tecnica tipografica, che consentiva di utilizzare per esse la rutilante gamma di colori della cromolitografia).

Così, mentre le illustrazioni interne dei volumi restavano abbarbicate, come si è detto, al codice figurativo imperante negli ultimi decenni, le immagini di copertina degli stessi volumi, dopo un inziale periodo di incertezza, si portavano decisamente all'avanguardia del gusto dell'epoca, assorbendo e riecheggiando tutte le proposte della cultura figurativa europea più avanzata.

Avviene così che, riguardando oggi quei volumi policromi, incontriamo sulle loro copertine (e soprattutto su quelle di Alberto della Valle, che ne firmò la stragrande maggioranza) degli echi di artisti contemporanei di fama europea, da Beardsley (Il re dell'aria) a Crane (Capitan Tempesta), da Delacroix (La riconquista di Mompracem) a Rochegrosse (Sull'Atlante); quando non si tratti addirittura di anticipazioni di tendenze di gusto prossime venture, come nella copertina de Le figlie dei faraoni (1906!), in cui Della Valle precorre addirittura le eleganti stilizzazioni déco di Georges Barbier, e l'uso delle tinte piatte tipico del "pochoir".

Su tutto questo, infine, si estende propiziatrice l'ombra di Alphonse Mucha (uno dei più geniali e più scaltri volgarizzatori di William Morris), cui si ispirano in modo evidente quasi tutte le ornamentazioni e le "cornici" compositive: in una girandola di nastri, di fregi, di spire serpentine e di forme geometriche, che, se non sempre necessariamente bella, è quantomeno quasi sempre una festa per gli occhi.

E' così che il colore entra prepotentemente, e per la prima volta, nelle stanze dei ragazzi italiani; e con il colore ci entrano una libertą compositiva, una gioia dell'immagine, un'abbondanza di suggestioni adulte e una fantasia che fino allora erano rimaste del tutto sconosciute ad una generazione cresciuta fra le pochissimo esilaranti, e piuttosto jettatorie, illustrazioni di Cuore.

Da vecchio salgariano, mi piace pensare che sia proprio attraverso Emilio Salgari che si verifica "il passaggio del testimone" fra il vecchio gusto ed il nuovo. Chissą, forse non è un caso che lo scrittore muoia proprio nel 1911: lo stesso anno in cui vede la luce in Italia la rivoluzionaria edizione del Pinocchio di Collodi, per la prima volta (e splendidamente) illustrato a colori da Attilio Mussino. Un libro che apre la strada ad una editoria per l'infanzia sicuramente meno ricca e meno copiosa di quella dei nostri cugini d'oltralpe, ma che annovererą tuttavia, fra le sue file, degli autori come Sergio Tofano, Antonio Rubino e Duilio Cambellotti.

(LG Argomenti, ottobre-dicembre 1994)

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