Torino Mon Amour

Per un torinese che vive da trent'anni a Roma, come sono io, Torino non è tanto un luogo geografico quanto un luogo della memoria. E' il luogo dei genitori e dei fratelli, delle case di campagna che parlano di passato, delle radici che affondano nella terra del Canavese; una geografia urbana fatta di angoli retti, di viali larghi, di isolati squadrati che portano a costruirsi una geografia interiore altrettanto squadrata, pragmatica, un po' calvinista; un porto delle nebbie, così fitte che d'inverno bisogna tenere la luce accesa dal mattino alla sera e se si esce non si vede l'altro lato del viale, ma che quando si diradano scoprono una cerchia di montagne che nelle belle giornate sembra di poter allungare una mano e toccarle, così selvagge, alte e bianche che a vederle puoi urlare di felicità oppure tacere, soverchiato dall'emozione; o ancora, un ventre materno dei patemi adolescenziali, della formazione di un essere umano, della presa di coscienza di un mondo pieno di schiaffi e di baci, di cose tremendamente belle e di cose tremendamente brutte.

Fra quelle tremendamente belle, le ragazze e il cinema. E poiché in questa sede non credo interessino molto i primi patemi d'amore, gli accompagni a casa della compagna di scuola, le paralisi da timidezza, i primi baci rifiutati, i primi baci accettati, fermiamoci alla seconda cosa bellissima, il cinema. Il cinema scoperto, amato e fruito come spettatore molto prima che come critico, o sceneggiatore, o regista. Il cinema delle salette parrocchiali con le sedie di legno, delle fughe fraudolente da casa, il cinema dell'immensa ondata dei film americani degli anni quaranta e cinquanta, di Jane Russell e di Maureen O'Hara, di Gary Cooper e di Errol Flynn, di Stanlio e Ollio che si chiamavano Cric e Croc ed erano già vecchi e stanchi ma allora non parevano, del guanto sfilato di Gilda e del capezzolo appena intravisto di Caroline Chérie, dei technicolor fiammeggianti e delle musiche gonfie e ruffiane, il cinema "on the road" dei viaggi in periferia, su su fino alla borgata Lucento o in fondo a corso Giulio Cesare o in fondo a via Nizza, che per un ragazzino che abitava in corso Duca degli Abruzzi erano viaggi fantastici e avventurosi, alla scoperta di una Torino ignota e di una stanza buia dentro alla quale però c'erano le foreste del Canadà e i mari della Malesia, la muraglia cinese e la jungla proibita di Tarzan, magari tutto ricostruito in studio ma in fondo chissenefrega.

Dissolvenza a nero, didascalia "Pochi anni dopo...", dissolvenza ad aprire sull'elegante saletta del Cineforum del Sociale, e poi le sedie scomode ed eroiche del Bernini in cui si svolgevano allora le proiezioni del CUC, e Gianni Rondolino che parlava un linguaggio sconosciuto e colto, intimidente ma affascinante, e una grande abbuffata di espressionismo tedesco e di neorealismo italiano, di realismo russo e di realismo poetico francese, in un pranzo gargantuesco per un ventre mai sazio, che fra tante pietanze indigeste scopriva i sapori straordinari di Dreyer e di Eisenstein, di Capra e di Clair, di Chaplin e di Keaton, di Welles, Rossellini e Carné.

Tutto questo andrebbe sbrigativamente rubricato sotto la voce "amarcord", che però essendo in Piemonte dovrebbe subire qualche lieve modifica e diventare "a m'arcordô": e potrebbe anche essere considerato ininfluente al fine di ciò che è venuto dopo, se non fosse che il "dopo" in questione è proprio nato da quel duplice binario seguito negli anni dell'imprinting, il cinema di genere e quello colto, il dottor Jekyll e mister Hyde, lo spettacolo da baraccone e la riflessione esistenziale, che sono poi due facce della stessa medaglia chiamata Storia del Cinema e che da cent'anni camminano fianco a fianco facendosi la forca a vicenda, o magari sforzandosi di convivere e in alcuni casi riuscendoci anche.

In ciò che è venuto dopo per me, Torino occupa un posto all'inizio casuale e poi sempre più importante: e non mi riferisco tanto ai film che ho fatto, che sono paurosamente pochi, quanto a quelli che avrei voluto fare e non ho ancora fatto, e che nell'attesa sono diventati romanzi.

Hanno cambiato faccia, il mio primo lungometraggio, è l'unico girato in Piemonte, ma paradossalmente è anche quello in cui Torino ha un'importanza più marginale. Perché me n'ero andato da poco, e la città era ancora un luogo concreto diventato un po' asfittico, non ancora trasformato in quel luogo che la memoria colorava di rimpianto e di mito. Se Hanno cambiato faccia fu girato a Torino e dintorni, ciò fu dovuto in parte al fatto che si trattava di una versione moderna della storia di Dracula, e che quindi mi servivano paesaggi montani e nebbiosi e le montagne della Val di Susa erano quanto di più vicino ai Carpazi ci fosse a portata di mano; ma molto di più al fatto che i soldi a disposizione erano ridicolmente pochi e a Torino giocavo in casa, avendo la possibilità di sfruttare amici e case di amici, senza guardare troppo per il sottile in quanto a verosimiglianza e rigore. Un esempio fra i tanti: nessuno scenografo, per spericolato che fosse, avrebbe mai pensato di abbinare, per la villa dell'ingegner Nosferatu, il parco e gli esterni di una villa settecentesca in quel di Chieri e gli interni modernissimi di una villa in collina costruita pochi anni prima dall'architetto Zanuso: cosa che probabilmente lasciò perplessi alcuni spettatori, ma ancor prima di loro il protagonista del film, che a un certo punto dice pressapoco "Che strano... ambienti così moderni in una villa così antica...", tanto per permettere alla segretaria dell'ingegnere vampiro di ribattere: "Noi non facciamo nessuna differenza fra presente e passato..." e dare un minimo di giustificazione logica a una scelta dettata esclusivamente da ragioni produttive assai terraterra. La necessità aguzza l'ingegno, e noi eravamo poveri ma ingegnosi, come testimoniarono un bel po' di critiche positive e il primo premio ex-aequo che il film vinse nel 1971 al Festival Internazionale di Locarno.

Baba Yaga fu invece girato in esterni a Milano, perché là abitava la Valentina Rosselli protagonista del film e delle storie a fumetti di Crepax da cui esso era tratto; e poiché oltre a essere il mio secondo film fu anche l'ultimo, almeno a tutt'oggi, il discorso su Torino sembrerebbe bell'e concluso, se non fosse per quella continuità già accennata tra film fatti e film ancora da fare, tra film e soggetti, tra film e romanzi.

Dopo Baba Yaga, infatti, il rapporto tra il sottoscritto e il cinema si interruppe per quasi vent'anni: vent'anni nel corso dei quali ritornai spesso a Torino per girarvi cose che non erano film, fra i quali vale forse la pena di ricordare un cortometraggio degli anni settanta dedicato alle fiabe e intitolato C'era una volta, che mi portò in compagnia di Maria Adriana Prolo fra le macerie spettrali del Circarama di Italia '61, candidato in quegli anni a diventare la nuova sede del Museo Nazionale del Cinema; e un servizio televisivo degli anni ottanta intitolato Il gioco del giallo, con Carlo Fruttero e Franco Lucentini che in studio inventavano estemporaneamente la trama di un nuovo romanzo poliziesco, e Milva che con grande ironia ne interpretava i passi salienti, muovendosi tra piazza Castello e i Murazzi, tra il Castello Medievale e il mercato di Porta Palazzo.

Questo, fra tante altre cose, faceva il regista; ma intanto lo spettatore continuava a andare a vedere tutti i film che da altri venivano girati a Torino, uscendo ogni volta dal cinema con l'impressione sgradita che nessuno riuscisse a cogliere, in modo adeguato, l'aspetto esterno e l'anima occulta della sua città, oppure a trarne spunto per climi e atmosfere magari irreali ma che non fossero scontati e banali. L'unica ma vistosa eccezione fu la splendida città metafisica dell'Argento di Profondo rosso; e ancora adesso, per ritrovare nella memoria una Torino per me plausibile, devo rimuovere quelle recenti ma artificiose dell'Amelio di Così ridevano e del Calopresti de La seconda volta (già meglio quelle del suo Preferisco il rumore del mare e dei Poliziotti di Base) e risalire fino a quella ormai preistorica dell'Antonioni de Le amiche. Perfino il Comencini de La donna della domenica, pur avendo alle spalle un distillato di torinesità qual'era il romanzo di Fruttero e Lucentini, non riuscì ad andare molto al di là di una gradevole serie di cartoline illustrate.

Ogni visione di film, cumulandosi con gli anni che passavo nel disordine e nel rumore solare di Roma, contribuiva comunque a farmi rimpiangere le nebbie e i silenzi della città da cui provenivo, portando avanti quel processo di trasformazione da luogo geografico in luogo della memoria di cui dicevo all'inizio: e fu quasi inevitabile che quando volli tornare al cinema cercassi di farlo con due storie ambientate (e profondamente legate) a Torino. Di queste due storie parlerò come se si trattasse di film, poiché come film furono pensate, anche se per ora sono approdate solo alla carta stampata e non alla pellicola a 35 millimetri.

Un posto al buio (pubblicato come romanzo dalla Biblioteca del Vascello nel 1994) avrebbe dovuto (dovrebbe?) completare una trilogia direttamente ispirata alla letteratura ed al cinema gotico: se Hanno cambiato faccia infatti rilegge in chiave marcusiana la storia di Dracula, e Baba Yaga innesta sulla storia di Crepax degli espliciti riferimenti al Golem, Un posto al buio si ispira direttamente a Il fantasma dell'Opera, prendendo le mosse da una notizia di cronaca (l'incendio del cinema Corso, avvenuto nel 1980) per sviluppare una trama giallo-nera con accenti di commedia (alla Fruttero e Lucentini, ancora...). Quando il film fu pensato, il cinema Corso era ancora lì, meraviglioso set dal vero, nero d'incendio e con l'ingresso sbarrato dagli assi, e gli sono debitore di un momento di grande emozione, quei momenti che in una frazione di secondo ti compensano di mesi di delusioni, frustrazioni e fatiche: quando ci entrai per i sopralluoghi (doveva produrlo Franco Cristaldi, e arrivammo praticamente alla vigilia delle riprese, prima che una serie di circostanze sfortunate e casuali non inchiodasse al palo il progetto) e scoprii, a sceneggiatura e a romanzo ultimati, che era esattamente come lo avevo descritto, basandomi sui miei ricordi di spettatore di venti o trenta anni prima visti attraverso le fiamme di un incendio rovinoso.

Giallo antico invece (pubblicato come romanzo da Fògola nel 1999) non ha legami con il cinema gotico ma è più che mai legato a Torino: muovendosi in un continuo flashback tra il presente e il passato, narra infatti di una specie di inchiesta che nella città di oggi permette di portare alla luce una serie di eventi che si svolsero nella città dell'inizio del secolo, e che coinvolsero due noti personaggi torinesi, lo scrittore Emilio Salgari e il regista Giovanni Pastrone. Rispettando tutte le circostanze storicamente conosciute e completandole in modo arbitrario ma non impossibile, l'inchiesta dei due protagonisti moderni giunge alla conclusione che forse il suicidio di Salgari non è stato esattamente un suicidio...

Le due storie non sono ancora approdate allo schermo ma hanno avuto un certo successo nella versione romanzo, ricorrendo in molte recensioni e commenti ("et pour cause") l'osservazione che nel leggere i libri sembra di vedere dei film... Forti (si fa per dire) di questo, continuano a girare tenaci nel limbo dei progetti irrealizzati, che purtroppo è formato da scrivanie di funzionari televisivi con l'occhio inchiodato alla tabella dell'Auditel e di produttori cinematografici col fiato grosso. Le strade del cinema sono comunque infinite, si sa: e personalmente continuo a pensare che sia bello arrivarci (o cercare di arrivarci) passando attraverso i viali larghi e soffocati dalla nebbia della città in cui sono nato.

Corrado Farina

( Contributo per "Torino città del cinema" - catalogo di una rassegna di film girati a Torino - Editrice Il Castoro, Milano 2001)


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