Lo scrittore --> Racconti --> I duellanti

(Nel 2000 avevo pubblicato il romanzo Giallo antico e Roberto Palazzi, grande amico e noto bibliofilo poi prematuramente scomparso, non mi aveva perdonato di non aver fatto finire a letto insieme i due protagonisti. I duellanti fu scritto di getto in una sera, prendendo visione in extremis di un concorso delle Edizioni Altana per un racconto sul mondo dei libri, in cui si piazzò a un decoroso secondo posto).

***

I DUELLANTI

La testa mi ricade all'indietro, e il contraccolpo è sufficiente a dissolvere il sonno che di nuovo mi stava annebbiando la mente. Per la terza volta (o è la quarta?) muovo la mano nel buio, verso il tavolino basso sul quale so di aver posato, su una "fotocopia d'autore" numerata e firmata delle Note azzurre censurate di Carlo Dossi, le sigarette e la scatola dei cerini. Trovo il pacchetto, ormai ciancicato e semivuoto, ne faccio sbucare una sigaretta, me la infilo in bocca e l'accendo. I pochi secondi di vita della fiammella sono sufficienti per illuminare di un bagliore malato l'angolo della stanza in cui si trova la poltrona, la libreria che mi preclude la vista della maggior parte della stanza, le pile di libri che giacciono alla rinfusa un po' dappertutto. Sono i libri moderni, si capisce, per quelli antichi ho una cura maggiore e li tengo nelle molte librerie sparse per la casa, ma lo spazio è quello che è e tutti gli scaffali si piegano ormai sotto il peso della carta stampata. Così sono stato costretto a deporre quelli di minor pregio prima sui mobili e poi sul pavimento, dove si alzano in pile che adesso, all'incerto bagliore del cerino, mi fanno un effetto bizzarro, a metà strada fra le colonne d'Ercole e gli alberi di una foresta priva di fronde.

Sento il pendolo dell'ingresso che incomincia a ronzare in sordina: è il suo modo di annunciare che sta per suonare le ore: subito dopo, infatti, il silenzio della casa viene trafitto da una... due... tre stoccate profonde.

Le tre, e non è ancora venuto. Eppure verrà, lo conosco ormai troppo bene per avere dei dubbi. Mi alzo senza fare rumore, mi avvicino alla finestra facendo bene attenzione a schermare la brace della sigaretta con il dorso della mano, accosto l'occhio alla fessura che si apre fra la tendina e l'infisso. Ha smesso di piovere; il lampione sotto casa e l'insegna della videoteca sull'angolo, aperta a self-service per tutta la notte, si riflettono sull'asfalto bagnato e sulle rotaie del tram. Due ombre lunghe si affacciano incerte alla zona di luce, vengono avanti sempre più brevi e più nette fino a che i loro proprietari non passano sotto al lampione, per poi tornare ad allungarsi dalla parte opposta e sparire. A occhio e croce mi sono sembrati due ragazzi, forse ubriachi, forse fatti di droga, che da queste parti scorre allegra come un torrente in montagna. Di certo nessuno dei due aveva la sagoma massiccia della persona che aspetto.

Prima di tornare a sedermi dò un'occhiata alla scrivania, che essendo vicina alla finestra riceve attraverso i vetri un po' della luce del lampione. Il computer dorme, come fanno a quest'ora quasi tutti i cervelli elettronici e umani; e di fianco a lui dorme anche la grossa busta imbottita che contiene il dattiloscritto, in attesa di affrontare domani mattina, nel furgone del corriere, il viaggio verso la mia casa editrice. Anche se per vivere infatti faccio un altro mestiere, da qualche tempo ho incominciato a scrivere dei romanzi. Mi è sembrato un modo per reagire all'ambiente gretto in cui passo le mie giornate, un mondo di immagini dietro a cui non c'è niente, popolato da persone arroganti e prive di educazione che sono frustrate o malate di delirio di onnipotenza o entrambe le cose allo stesso tempo. Alla sera invece, quando ritorno a casa, accendo il computer e mi immergo in un mondo diverso, dove ci sono solo personaggi creati da me, che quindi ragionano sulla mia gamma d'onda e che posso amare o odiare ma comunque capire. Ritorno silenziosamente alla mia poltrona, dribblando le pile di libri con l'abilità consumata di un cieco, e mentre mi siedo sogghigno fra me. Mi è venuto in mente il romanzo d'esordio di Mickey Spillane, in cui c'è una situazione per certi versi simile a questa: il protagonista, di notte, in un alloggio buio, aspetta la visita della donna che ama, che gli si spoglierà davanti indumento per indumento e che poi lui ucciderà a sangue freddo. Solo che io non voglio uccidere nessuno, e posso escludere nel modo più assoluto ogni ipotesi di spogliarello; anche perché non sto aspettando una donna, come succedeva a Mike Hammer, ma un uomo che è uno dei miei amici più cari.

L'ho trovato, questo amico, nel mondo degli amanti della carta stampata, dei collezionisti, degli editori: un mondo che forse, alla resa dei conti, non è molto meglio del mio ma che ho il privilegio di frequentare solo come visitatore e non come residente, con la possibilità quindi di ignorarne gli aspetti più sordidi e loschi. Ci ha affratellato, da subito, la comune indignazione per una certa edizione dei disegni di Alberto Martini, che un editore particolarmente sfizioso aveva stampato su carta azzurrina annientando il sapiente gioco dei bianchi e dei neri; e hanno rinsaldato questo legame l'amore per le stesse cose (il cinema, i libri, i fumetti) e certi modi comuni di essere, come la caparbia volontà di mettere i puntini sulle "i" e la capacità di perdere un sacco di tempo per verificare un nome o una data, per trovare il tassello mancante al puzzle di un'edizione antica o a quello di un film dimenticato da tutte le storie del cinema. Tra noi, ogni volta che ci si incontra, è un ininterrotto tirare di scherma rimbalzandoci titoli e dati, e se in campo cinematografico forse prevalgo io, lui mi soverchia in campo librario, con la vastità delle sue conoscenze che vanno molto al di là dei territori di interesse comune e che lui, lungi dall'ostentarle, è sempre pronto a fornire a richiesta, con quel suo sorriso disarmante da bambino troppo cresciuto o da bonario orsacchione dei cartoni animati. E ogni volta, anche se è passato del tempo, il discorso riprende esattamente dal punto in cui lo si era lasciato, come appunto avviene nei casi in cui l'amicizia non è solamente una parola logorata dall'uso.

Forse è proprio per questo che quando ho incominciato a scrivere romanzi ho preso l'abitudine di sottoporgli prima che a qualsiasi altro le cose che scrivevo; poiché egli rappresenta per me l'ideale anello di congiunzione fra la capacità critica - fatalmente compromessa - dell'autore e quella più obiettiva di chi legge un libro scritto da un altro che gli è particolarmente affine.

In genere condivido le sue critiche e ne faccio tesoro; ma qualche mese fa è successo qualcosa che ha creato fra di noi un disaccordo insanabile.

Il mio ultimo romanzo verteva su certi fatti accaduti a Torino all'inizio del secolo, che una coppia di personaggi dei nostri giorni indagava finendo per portare alla luce una realtà molto diversa da quella comunemente accettata. Non è il caso di spiegare qui di quali avvenimenti si trattasse, poiché la discussione nacque non sulla spiegazione che io ne davo ma sui due personaggi che conducevano l'inchiesta, uno studente laureando in storia del cinema e una bella professoressa di mezza età felicemente sposata. Nasceva fra questi due personaggi un sentimento d'amore che li travolgeva entrambi, spingendo la donna fino sull'orlo dell'adulterio, da cui essa si ritraeva all'ultimo in un estremo sussulto di rigore morale.

Mi sembrava che questo fosse un finale meno scontato del farli andare a letto insieme, come da tempo vuole la regola ferrea dell'happy end di ogni storia d'amore, che sia narrata per parole o per immagini. Ma il mio amico si dichiarò nettamente contrario, sostenendo che quando si arriva al punto a cui erano arrivati i miei due personaggi non ci sono freni inibitori né considerazioni morali che tengano, e che quando ci vuole (la scopata) ci vuole. Io resistetti, poiché mi sembrava che di sesso grondassero ormai fin troppo, e da tempo, sia le sale dei cinema che gli scaffali delle librerie. Ma lui non era mai riuscito ad accettare il mio punto di vista e, ogni volta che ci si era incontrati dopo che aveva letto la prima stesura del romanzo, era tornato sull'argomento, cercando di indurmi a modificare il finale della storia nel senso più ovvio e - sosteneva - più gratificante per tutti.

Così è successo anche ieri sera, quando è venuto a cena da me in compagnia di alcuni amici e amiche comuni. Ha visto sulla scrivania la busta contenente la versione definitiva del dattiloscritto, con l'indirizzo del mio editore (che me l'ha già sollecitato più volte); e all'idea che ormai non ci fosse più nulla da fare, che la storia d'amore di Marco e di Federica fosse destinata a finire così sul più bello, lo ha reso taciturno per tutta la serata, lui di solito così allegro, sempre pronto alla battuta e allo scherzo. Quando poi verso mezzanotte abbiamo toccato il fondo della seconda bottiglia di whisky e tutti si sono alzati, lui se ne è andato per ultimo, e sulla soglia si è fermato per chiedermi un'ultima volta: "Ma sei proprio sicuro...?". Alla mia risposta affermativa ho visto il suo faccione irsuto e gioviale irrigidirsi in una espressione che mai gli avevo visto prima, e mentre lo osservavo sprofondare nell'ombra, giù per la tromba elicoidale delle scale, come persona che porta sulle spalle tutto il dolore del mondo, mi sono sovvenuto di certe discussioni fatte in passato sul fine che giustifica i mezzi e mi sono reso conto che non avrebbe accettato la sconfitta senza tentare un "affondo" a sorpresa.

Così, invece di andare a dormire, mi sono seduto in quest'angolo del salotto dietro alla libreria e ho cominciato ad aspettare. La bocca mi brucia per le troppe sigarette, ma esse sono l'unico mezzo che mi consente di tenere a bada il sonno, in attesa che lui ritorni. Perché tornerà, lo so. Non può non tornare.

Il pendolo incomincia a ronzare e allunga nel silenzio un solitario fendente, quello della mezz'ora. Le tre e mezza. L'eco del rintocco non ha neppure finito di smorzarsi che sento venire dall'ingresso un leggero fruscio, breve e cauto come un sospiro. Una chiave sta girando nella serratura: quella chiave del mio appartamento che lui ha in deposito per ogni emergenza, come io ho in deposito quella dell'alloggio di lui.

Sogghigno di nuovo, con tutti i sensi all'erta; le orecchie mi riferiscono che la porta viene cautamente richiusa e che un passo leggero si avvicina nel corridoio; gli occhi mi segnalano la luce schermata di una torcia elettrica che sbuca dall'angolo e ispeziona la stanza, senza tuttavia penetrare abbastanza in profondità da illuminare l'angolo defilato in cui si trova la mia poltrona. Poi la luce devia verso l'angolo opposto, dove si trova la scrivania, e ci si avvicina aggirando le pile di libri, uscendo dal mio campo visivo ma entrando in quello dello specchio sul comò del salotto, che mi consente di vedere da dove mi trovo tutto ciò che succede là dietro.

Così, novello Alice, posso vedere attraverso lo specchio tutto ciò che succede di là: vedo la luce della pila che approda al piano della scrivania, vedo le mani di lui che si impadroniscono della busta diretta all'editore, aprono con cautela e pazienza, con l'aiuto di un coltellino, i punti metallici con cui ieri sera l'ho chiusa, ne estraggono il ponderoso fascicolo del mio romanzo, ne sfogliano le pagine conclusive, identificano il punto in cui Marco e Federica stanno per cedere al richiamo dei sensi, asportano una decina di fogli e li sostituiscono con altrettanti fogli scaturiti dall'ombra. Poi le mani, sempre con calma e metodo, rimettono nella busta il malloppo cartaceo, prendono le pinzette precedentemente asportate, le riinfilano nei loro minuscoli buchi e con l'aiuto del solito coltellino le richiudono - una per una.

La busta viene rimessa nell'identica posizione in cui si trovava, i fogli prelevati scompaiono nelle tenebre, la luce riprende il largo, esce dallo specchio, ricompare nel mio campo visivo facendo rotta verso la porta d'ingresso. Gli occhi concludono il loro rapporto ma le orecchie continuano a tenermi al corrente del seguito, fino a che un clic leggerissimo non mi fa capire che la porta si è richiusa alle spalle di lui. Non mi muovo, limitandomi ad accendere un'ultima sigaretta. Voglio essere ben sicuro che non si sia fermato in strada, a osservare le mie finestre per vedere se qualche luce si accende. Poi, quando il pendolo ha finito di avventare nel silenzio le quattro previste stoccate, mi alzo adagio, arrivo alla finestra, chiudo per maggior sicurezza gli scuri interni, mi siedo alla scrivania e accendo il computer. La luce azzurrina del monitor è più che sufficiente a illuminare il piano della scrivania: mentre il Macintosh sbriga i suoi riti preliminari, apro a mia volta la busta, ripetendo l'intervento sui singoli punti metallici che è stato compiuto poc'anzi. Finita questa operazione tiro fuori il dattiloscritto, individuo i fogli surrettiziamente sostituiti a quelli originali e li osservo.

Non posso evitare che mi pervada, una volta di più, un sentimento difficile da spiegare: non solo il font, la dimensione, i righelli e i paragrafi rispettano fedelmente quelli miei originari, ma anche la carta è assolutamente identica a quella che uso io abitualmente, di modo che nessuno potrebbe accorgersi della sostituzione e io stesso sono quasi portato a domandarmi se quei fogli non li ho scritti io. Il mio turbamento cresce quando leggo le pagine scritte: a partire dal punto in cui io li avevo condotti, Federica perde infatti ogni freno inibitore e fa con Marco tutto ciò che i suoi sensi e il suo cuore la inducono a fare.

Anch'io mi trovo adesso di fronte a un dilemma, come è successo a Federica poc'anzi: avevo deciso naturalmente di ripristinare il testo originale, ma sulla strada di questa decisione mi frena l'ammirazione che si prova di fronte a ogni opera d'arte. Poiché, non tanto da un punto di vista letterario quanto da quello della contraffazione, le pagine sostituite sono un vero capolavoro: non solo Marco e Federica fanno tutto ciò che devono fare con una discrezione e una eleganza che molti scrittori di libri erotici dovrebbero prendere a modello; ma lo fanno con una tale capacità di mimesi stilistica e di adesione al mio modo di scrivere che, una volta di più, provo lo smarrimento di chi si trova di fronte a un se stesso "altro", come il William Wilson di Poe.

Quanto tempo ho passato, nella lotta contro questo secondo me stesso? Sicuramente molto, dal momento che non ho neppure sentito il pendolo che batteva la mezza. Il tempo mi sfugge di mano, nel tentativo - peraltro vano - di convincermi che durante un duello non puoi permetterti di non vibrare, potendolo, il colpo finale; anche se combatti contro un amico; anche se questo amico ti ha quasi sconfitto con un colpo da maestro che suscita la tua ammirazione.

A un certo punto sento la testa farsi nuovamente pesante e mi rendo conto che una decisione va presa, e subito, prima che il sonno mi vinca.

La prendo. Nella luce azzurrina, allungo una mano verso il mouse, apro il file con il testo dell'intero romanzo, vado a cercare le pagine asportate, le evidenzio e dò il comando di stampa; il ronzio della stampante si somma a quello del pendolo che si accinge a vibrare nuovi colpi, e l'ultimo foglio stampato scivola fuori dalla fessura proprio quanto l'eco del quinto rintocco ha appena finito di perdersi nel silenzio della notte. Che poi, tacendo anche la stampante, torna a calare sovrano sul mondo.

Ecco, adesso mi trovo in mano i due mazzetti di fogli, quello scritto da me e quello scritto da lui. Li capovolgo, posandoli sulla scrivania dal lato scritto, poi li sposto più volte a destra e a sinistra, invertendo le rispettive posizioni come sono soliti fare gli imbroglioncelli specializzati nel gioco delle tre carte. Vado avanti fino a che non sono ben certo di avere perso di vista quale sia il mio e quale il suo, poi ne prendo uno a caso, rovescio sul lato scritto tutto il resto del romanzo e ce lo poso sopra; rimetto il tutto nella busta e la richiudo con gli stessi punti metallici, che infilo con pazienza nei buchini esistenti. E se qualcuno mi domandasse perché mi sono dato questa pena anziché prendere la pinzatrice e richiudere la busta con una fila di punti nuovi, non saprei che cosa rispondergli: poiché è difficile spiegare a chi non è in grado di capirlo da solo quanto sia importante saper rispettare le regole del gioco, qualunque esso sia.

Poi mi alzo, vado a prendere la scatola dei cerini e mi avvicino al camino. Accendo un cerino e lo avvicino al secondo mazzetto di fogli. Rimango a osservare le superfici scritte sul retro che si accartocciano e bruciano, fino a che non sono ridotte a un mucchietto di cenere.

Per sapere chi ha vinto il duello, dovremo aspettare che il libro sia stato stampato.

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