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(Il racconto fu scritto nel 2005 su richiesta di Gordiano Lupi per essere incluso in una antologia di racconti "gialli" ambientati a Torino, pubblicata l'anno successivo dalle Edizioni Il Foglio con il titolo Torinoir. Mi resi conto però che lo spunto narrativo stava lievitando e con l'accordo di Lupi lo ampliai, facendolo diventare il romanzo Il cielo sopra Torino, Fògola Editore 2006).

***

MEZZASEGA

Mi richiudo la porticina alle spalle e resto fermo, accovacciato, per alcuni secondi. Le tenebre e il silenzio mi avvolgono come... ma sì, come un sudario: suppongo che l'interno di una bara non sia molto diverso da questo, anche perché in qualunque direzione io muova le braccia incontro subito la fredda parete.

Quando il mio cuore ha ricuperato i suoi ritmi abituali, tiro un profondo respiro e incomincio a muovermi. Mi tolgo lo zaino dalle spalle, lo sistemo in un angolo, poi lego il Mauser a un capo della corda e mi lego l'altro capo alla vita. Trovo a tentoni la sbarra del primo scalino, la stringo con entrambe le mani e mi tiro su, mettendomi, per quanto lo consente lo spazio angusto, in posizione verticale.

Poi, piano piano, incomincio a salire.

Dico salire perché so che questa è l'unica strada percorribile, oltre a quella dalla quale provengo. Ma l'informazione me la forniscono il cervello e la forza di gravità: l'istinto invece mi restituisce, per qualche istante, la sensazione che ho provato la prima volta che sono entrato qui dentro e mi sono mosso in questo cunicolo buio, senza capire se stavo salendo, o strisciando in piano o calandomi nelle profondità un pozzo. Privo di riferimenti visivi com'ero, avrei potuto indifferentemente essere una mosca che cammina su un vetro, un ragno che si sposta lungo il filo di una ragnatela o un verme che si apre la strada in un terreno fangoso.

La prima volta... quanto tempo è passato? Un anno? No, di più, forse due. Di certo non erano ancora state promulgate le leggi razziali, e Myriam non era una ragazza ebrea ma solo una compagna d'Università di cui ero innamorato. Non avevo mai trovato il coraggio di dirglielo, poiché mi trascinavo appresso da sempre una timidezza congenita aggravata da un complesso di inferiorità per la mia bassa statura. Anche con le scarpe da pioggia, con la suola spessa di para, non arrivavo al metro e cinquantacinque di altezza: e che la statura rappresentasse un problema me n'ero accorto brutalmente intorno ai dieci anni, quando avvicinandomi durante la ricreazione a un gruppo di compagnucci della seconda elementare avevo colto al volo la frase del mio vicino di banco: "Dui dì 'd gambe e 'l cul l'è lì". Erano seguiti un coro di risatine e poi, quando i compagni mi avevano visto, un silenzio imbarazzato che mi aveva fatto capire che si stava parlando proprio di me; e quella frase, pronunciata peraltro senza cattiveria e con l'unico intento di far ridere gli altri, mi si era impressa nella memoria in modo indelebile.

Da quel giorno, e col passare degli anni, avevo sofferto per la lentezza esasperante della mia crescita, confrontandomi ogni sera con un metro a fettuccia trafugato dal cestino di lavoro di mia madre e applicato di nascosto dietro l'armadio di camera mia; ma quando mi era stato chiaro che più su di tanto non sarei andato, avevo anche imparato a mettermi l'animo in pace, rassegnandomi a guardare i miei coetanei dal basso verso l'alto e a parlare da pari a pari, tutt'al più, con qualche ragazza di media statura. Ma quello che non avevo mai superato era proprio il blocco psicologico nei rapporti con l'altro sesso: da quando in prima liceo mi ero sentito battere il cuore in maniera inconsueta ogni volta che incontravo nei corridoi del D'Azeglio una ragazza di terza, mi ero reso conto che non avrei mai avuto il coraggio di corteggiare una femmina con la prospettiva di dovermi alzare sulla punta dei piedi per poterla abbracciare. Così il mio amore di liceale si era consumato in una silenziosa adorazione a distanza; e se le mie prime pulsioni erotiche erano legate alle occasioni in cui riuscivo a vederla mentre faceva ginnastica nel cortile con il resto della sua classe, il massimo della gratificazione dal punto di vista sentimentale lo avevo raggiunto il giorno in cui l'avevo incontrata nel corridoio deserto e lei mi aveva rivolto la parola chiedendomi di farle da "palo" mentre fumava nel gabinetto delle ragazze una proibitissima sigaretta.

Le cose non erano migliorate negli anni seguenti, e il destino era stato così beffardo da farmi innamorare costantemente di ragazze più alte di me. Myriam Veronesi, conosciuta nelle tetre aule di Palazzo Campana, non faceva purtroppo eccezione alla regola: forse non bella nel senso più tradizionale del termine, era comunque ricca di fascino, grazie soprattutto a due grandi occhi scuri illuminati internamente dalla gioia di vivere, che facevano passare in secondo piano un naso un po' lungo. Quanto al corpo, era armonioso e slanciato, ma aveva l'immenso difetto di sopravanzare il mio di circa una spanna: cosa che - non appena mi ero reso conto che mi stavo innamorando di lei - mi aveva indotto a tentare di archiviarla nel triste museo delle occasioni mancate.

Ma questa volta non c'ero riuscito: ogni volta che ci era capitato di discorrere (di questo o quell'esame, o della situazione internazionale che il perdurare della guerra in Spagna e il minaccioso atteggiamento espansionistico della Germania rendevano sempre più fosca), Myriam era stata così allegra e gentile da farmi sperare che anche lei provasse verso di me, se non altro, una qualche forma di simpatia. E così, giorno dopo giorno, avevo accumulato e messo da parte la quantità di coraggio necessaria per saltare il fosso e chiederle di andare al cinema insieme.

Lei abitava al quarto piano di un bell'edificio di largo Vittorio Emanuele II, all'incrocio di corso Vittorio e di corso Galileo Ferraris, a due passi dal mio vecchio D'Azeglio e dalla stazione di Porta Nuova, dove di sale di cinema ce n'erano molte. Così un giorno l'avevo avvicinata alla fine di una lezione e, cercando di dominare il mio tumulto interno, le avevo chiesto se voleva venire a vedere Luciano Serra pilota, un film con Amedeo Nazzari che era uscito in quei giorni e stava riscuotendo un grande successo.

Mi era parsa lusingata e sorpresa. Pareva sul punto di dirmi di sì quando il suo sguardo si era alzato, passandomi sopra e fissando qualcuno che si trovava dietro di me.

Voltandomi, mi ero trovato col naso contro il massiccio torace di Carlo Audisio, un compagno di corso che non mi aveva mai degnato di uno sguardo e il cui atteggiamento arrogante mi aveva sempre dato fastidio. Lui mi aveva guardato dall'alto del suo metro e ottantacinque di altezza, e con palese disprezzo mi aveva lasciato cadere addosso queste poche parole:

- Levati di torno, mezzasega! Myriam al cinema ci viene con me!

Io sono piccolo ma abbastanza robusto, e non avrei esitato a rispondergli a tono e magari venire alle mani, anche se con ogni probabilità avrei finito col buscarle di brutto. Ma ciò che mi aveva trattenuto era stata la faccia di Myriam mentre si scusava e rifiutava il mio invito, adducendo in modo piuttosto confuso un precedente impegno di massima preso con Audisio. I suoi occhi sembravano supplicarmi di lasciar perdere e così avevo fatto, restando con la netta impressione che non ci fosse stato in realtà nessun impegno di massima, ma che per qualche ragione lei non avesse voluto contraddire le parole dell'altro.

L'episodio comunque era stato sufficiente a polverizzare tutta la mia determinazione, sicché nelle settimane seguenti mi ero ritirato nel mio guscio come una tartaruga umiliata. Anche lei, ogni volta che incrociavo il suo sguardo, sembrava distoglierlo dal mio con un certo imbarazzo: ma non abbastanza in fretta da non farmi notare che i suoi occhi - così allegri in passato - sembravano adesso come appannati da un velo di tristezza.

Solo in seguito, e col senno del poi, avevo capito che cosa succedeva. Nessuno osava parlarne apertamente ma per molte famiglie spirava già nel Paese un'aria infida. Si sapeva che uno dei punti di forza della politica hitleriana era l'antisemitismo, con lo scopo dichiarato di "proteggere il sangue e l'onore tedesco"; già da qualche anno, in Germania, gli appartenenti alla razza ebraica erano oggetto di leggi speciali che ne discriminavano le attività, e poiché il nostro Governo non aveva nessuna intenzione di mettersi in urto con il più potente vicino c'era il rischio che presto o tardi succedesse qualcosa di simile anche da noi (fu purtroppo prestissimo, una questione di mesi). In questa incertezza, e nell'impossibilità di prevedere il futuro, chiunque si sentisse in pericolo cercava di non inimicarsi persone che fossero in un modo o nell'altro legate al Governo o al Partito Nazionale Fascista: e quello che io scoprii solo dopo, ma che evidentemente Myriam sapeva già allora, era che Carlo Audisio era uno dei massimi dirigenti dei GUF del Piemonte.

Nel frattempo, io ero tornato ad alimentare uno dei miei tormentati amori a distanza; e non pago degli incontri a palazzo Campana, avevo trovato il modo di avvicinarmi a Myriam più spesso e senza essere visto.

Fu mio padre che lo rese possibile, anche se era morto alcuni anni prima. Quando io ero piccolo, mi faceva spesso vedere una grossa chiave di ferro che lui deteneva in qualità di capo-sezione di un certo ufficio municipale. "Questa chiave - mi diceva - ti permette di entrare nella testa del Re"; e nella mia fantasia di bambino pensavo che una volta entrato nella testa del Re avrei potuto dare - per bocca sua - tutti gli ordini che volevo, e che chiunque sarebbe stato tenuto a eseguire. Sentivo anche dire che il re era ancora più piccolo di me, e questo me lo faceva sentire più vicino e disponibile. Solo qualche anno più tardi scoprii che il sovrano alla cui testa la chiave magica consentiva l'accesso non era l'attuale Vittorio Emanuele III bensì suo nonno, quello "che aveva fatto l'Italia": quella chiave infatti apriva la porticina che si trova alla base del monumento a lui innalzato allo spirare del secolo scorso, consentendo di accedere alla scaletta interna che sale a piombo su per i venti e più metri della struttura muraria che unisce le quattro colonne in granito, e in cima alla quale c'è la statua bronzea di Vittorio Emanuele II.

Dell'esistenza di questa scaletta mi aveva informato un vecchio numero dell'autunno 1899 dell'Illustrazione Italiana, che mio padre conservava e che avevo trovato fra le sue cose quando era morto. Su questa rivista c'era un articolo sull'inaugurazione del monumento, e il fatto che all'interno ci fosse un passaggio (che doveva servire probabilmente per la manutenzione della statua) mi aveva sempre intrigato. Ma non mi era mai venuto in mente di entrarci fino a quando non avevo scoperto, con un tuffo al cuore, che esso sorgeva proprio davanti alle finestre dell'alloggio in cui abitavano Myriam Veronesi e sua madre. Mi avevano sempre insegnato che non sta bene spiare le persone dal buco della serratura ma, di fronte alla tentazione che mi si apriva davanti, la lotta contro i principii morali e religiosi che mi erano stati instillati si rivelò perduta in partenza: e non passò molto tempo prima che mi ritrovassi una sera, ad ora avanzata, alla base del monumento, in attesa del momento adatto per intrufolarmi al suo interno senza che nessuno vedesse. La cosa era tutt'altro che semplice perché la porticina di accesso, come avevo scoperto ben presto, non si apriva a livello di terra ma in cima al gruppo delle quattro grandi statue allegoriche che si trovano in basso. Se tutto andava bene, mi serviva almeno un minuto di margine di sicurezza, per evitare che i fari di un'automobile mi sorprendessero mentre salivo. Fortunatamente, i due viali che si incrociano in quel punto sono larghi e rettilinei, e consentono di vedere lontano in tutte le direzioni. Sicché, dopo un paio di tentativi abortiti, mi ero ritrovato ansante ai piedi delle colonne, a quattro o cinque metri di altezza, appollaiato sulla testa di non so quale statua (l'Unità, la Libertà, la Fratellanza, il Lavoro?), a sforzarmi di far scattare una serratura arrugginita che da chissà quanti anni nessuno più utilizzava.

Fu lì che mi sorprese una Balilla sbucata ad alta velocità dal fondo di corso Galileo Ferraris, con due fari che abbagliavano e risvegliavano dal loro sonno le facce immote delle statue intorno a me. Non avevo avuto che il tempo di immobilizzarmi di colpo, sperando che il conducente non si rendesse conto che nel gruppo scolpito c'era un personaggio in più. Per fortuna era andata come speravo: la Balilla era passata pochi metri più in basso, aveva svoltato in velocità in direzione del fiume e mi aveva restituito alla notte.

Ero riuscito finalmente ad aprire, massacrandomi le mani nello sforzo. Ho già detto delle sensazioni che avevo provato lì al buio, in quell'angusto angiporto dell'ignoto. E mi ci era voluto non meno di un quarto d'ora per trovare il coraggio di esplorare le tenebre con le mani (poiché nell'affanno non avevo neppure pensato a portarmi una pila), individuare la prima sbarra conficcata nella parete in mattoni e incominciare a salire.

Venti? Trenta? Cinquanta scalini? Ormai sono salito parecchie volte ma ancora non so quanti siano, perché ogni volta incomincio a contare e mi perdo per strada. Ero stato più volte sul punto di rinunciare, stremato dall'emozione e dalla fatica fisica, poiché il budello lungo il quale mi issavo era stretto, i pioli nella parete distanti almeno trenta centimetri l'uno dall'altro, e il caldo umido e soffocante. Più volte mi era mancato il fiato, mi ero fermato gocciolante di sudore, e avevo giurato a me stesso che sarei ritornato indietro; e più volte, dopo qualche minuto, avevo ricominciato a salire. Fino a che le mie mani non avevano incontrato, anziché un'ulteriore sbarra di ferro, la superficie liscia di una botola, che ero riuscito a sollevare solo facendo ricorso alle mie estreme risorse.

Ricordo che il fiato, a quel punto, mi era mancato ancora di più di quanto non fosse successo nel corso dell'ascensione. Smentendo i racconti di mio padre, la botola non si apriva nella testa ma ai piedi di Vittorio Emanuele II; lui mi osservava da sette-otto metri più in alto, con quella sua faccia accigliata di contadino che si trova a fare un mestiere che non gli piace, e come contrariato da quell'insetto che veniva a insidiare la sua regale solitudine. In basso c'era una croce luminosa, formata dalle file di lampioni dei due corsi che si incrociano allo slargo del monumento. Dal lato del fiume si leggeva nel buio la linea della collina, mentre sul lato opposto le montagne erano troppo lontane per essere qualcosa di più che una massa scura, di un nero appena diverso da quello del cielo.

Ma ciò che mi aveva tolto l'ultimo fiato non era il panorama bensì le finestre.

In direzione della Crocetta e della vecchia Piazza d'Armi c'erano solo giardini e ville a due piani, troppo basse perché mi riuscisse di vedere granché di ciò che succedeva all'interno; ma verso la Cittadella c'era una fila di grandi edifici a quattro o cinque piani, e i piedi di Vittorio Emanuele si trovavano poco più in alto degli abbaini dei tetti. La guerra e le leggi sull'oscuramento, all'epoca, erano di là da venire: molte finestre, malgrado l'ora avanzata, erano ancora illuminate, e da dove mi trovavo riuscivo a vedere dentro agli alloggi dei piani più alti. Decine di esistenze scorrevano davanti a miei occhi spalancati con la naturalezza e l'indifferenza che dà la certezza di non essere visti: qui qualcuno ascoltava la radio, là qualcuno era già andato a letto e leggeva; qui una coppia di mezza età sembrava altercare, a giudicare almeno dal suo gestire concitato, là una dozzina di uomini e donne si attardavano intorno a una tavola imbandita, al termine di un pasto che a giudicare dalla loro allegria doveva essere stato accompagnato da abbondanti bevute. In una stanza da letto, la luce di una veilleuse permetteva di intravedere su un letto due corpi nudi che apparivano e scomparivano fra un agitarsi di coperte e lenzuola, e in uno degli abbaini c'erano due ragazzi che montavano un modellino di nave da guerra.

Le finestre di casa Veronesi erano già buie e lo scopo principale della mia spedizione ne veniva frustrato; ma mentre osservavo ciò che succedeva sopra, sotto e di fianco a quelle, mi ero reso conto che stavo provando un godimento del tutto imprevisto: non solo per il fatto di poter spiare l'intimità degli altri senza essere visto ma perché, per la prima volta, vedevo tutti dall'alto in basso. Abituato com'ero a dover alzare la testa per interloquire col prossimo, a relazionarmi per lo più con menti e mascelle, mi sentivo invadere da una sorta di esaltazione infantile nel vedere finalmente la parte superiore del cranio di altri esseri umani, che fosse pelato o adornato da chiome.

Mi ero trattenuto lassù fino a quando la maggior parte delle luci erano state spente, e alcune tra le mie ignare comparse si erano esibite in più o meno gradevoli spettacoli di spogliarello. Un paio di giovani donne, liberandosi di ogni indumento prima di infilare la camicia da notte, mi avevano offerto sconosciute visioni di colline rosate con serici anfratti più scuri. La cosa aveva provocato in me emozioni non dissimili da quelle suscitate a suo tempo dalla compagna occhieggiata nel cortile del liceo D'Azeglio dalle finestre del corridoio; ma ciò che mi aveva sorpreso di più era il constatare che un turbamento per qualche verso analogo mi veniva anche dalla vista di uomini e donne più anziani e più sfatti, che mi sembravano diventare seducenti per il semplice fatto che li stavo guardando nelle loro pieghe segrete senza che loro lo sapessero.

A quella prima ascensione ne erano seguite altre, che l'esperienza acquisita aveva reso più facili e gratificanti. Fin dalla seconda visita mi ero preoccupato di oliare la serratura della porticina dabbasso, in modo da poter scivolare all'interno più in fretta; poi avevo acquistato da un rigattiere di Borgo Dora un potente binocolo, che mi consentiva di entrare letteralmente nelle stanze di quello che ormai consideravo come il mio personale teatrino, e di seguire da vicino la vita dei miei personaggi preferiti, quasi unendomi a loro sui vari palcoscenici.

A ognuno di essi avevo dato un nome convenzionale, ricavato per lo più dalle pagine di L'avventuroso e di altri giornali a fumetti. I due ragazzi appassionati di guerra e di modellismo erano naturalmente Cino e Franco, la coppia litigiosa di mezza età li avevo chiamati Orazio e Clarabella, quella più giovane e godereccia, che spesso invitava gruppi di amici, Gordon e Dale. Un grassone antipatico del terzo piano che girava sempre in mutande era Pietro Gambadilegno, mentre le due giovani donne sulle quali più spesso e più volentieri dirigevo il mio binocolo e attizzavo le mie fantasie sessuali erano rispettivamente Narda, la compagna di Mandrake, e Burma, la bionda avvenente che non disdegnava di svelare parte delle sue grazie nelle storie disegnate di Milton Caniff.

Soprattutto quest'ultima, grazie alla disposizione delle stanze del suo alloggio, riuscivo non di rado a vederla in déshabillé, se non addirittura completamente nuda: ed è superfluo dire che a me, alieno dal frequentare i bordelli e di conseguenza digiuno di conoscenza dei corpi femminili, la vista della "mia" Burma in carne e ossa che usciva gocciolante dalla doccia o si preparava per la notte era sempre particolarmente eccitante.

E Myriam? Lei non corrispondeva a nessun personaggio, lei era Myriam e basta. Purtroppo la sua stanza da letto doveva dare sul cortile interno, e dal mio posto di osservazione potevo vedere del suo alloggio solo il salotto e la camera da pranzo. Di conseguenza mi fu sempre preclusa la sua intimità più riposta, e tutto ciò che un giorno ero riuscito a rubare era stata l'immagine di lei che veniva a rovistare in sottoveste in un cassetto del trumeau. La visione era durata pochi secondi ma era stata sufficiente a scolpirsi in perpetuo nella mia mente, provocandomi un singolare connubio di sofferenza e di godimento ogni volta che la incontravo a palazzo Campana.

Questo limite imposto dal caso, tuttavia, non riduceva affatto la mia infatuazione: caso mai la potenziava, conservando alla giovane donna quel margine di mistero irrisolto che alimenta il desiderio molto più dell'appagamento del desiderio stesso, che suppongo che la realtà o la consuetudine finiscano per banalizzare. E mi accontentavo quindi di seguire i suoi spostamenti nella parte della casa che potevo vedere, osservandola mentre leggeva, ascoltava la radio o il grammofono, pranzava in compagnia della madre (una bella signora dai capelli precocemente imbiancati) o discuteva con lei. Poiché gran parte di queste cose avvenivano verso sera, e io non potevo pensare di andare e venire se non a notte avanzata, mi era anche accaduto di passare ventiquattr'ore filate appollaiato in cima alla scaletta o rannicchiato nello scomodo vano alla base della colonna, per poter spiare la mia protagonista e i suoi comprimari anche durante le ore del giorno.

Un'esperienza che avevo ripetuto di rado, sia per la scomodità delle posizioni in cui dovevo stare per tante ore di seguito, sia per i risultati piuttosto deludenti, dal momento che fino a che le luci non venivano accese all'interno degli appartamenti non era che dentro ci si vedesse granché.

Mentre io mi abbandonavo alle gioie del voyeurismo, la situazione internazionale precipitava. Nell'autunno del '38 l'odio antisemita in Germania aveva avuto una tragica accelerazione con il pogrom della "notte dei cristalli", nel corso della quale molti edifici erano stati devastati e incendiati, e un centinaio di persone uccise. Subito dopo, in Italia, seguendo le istruzioni del Gran Consiglio del Fascismo, il Consiglio dei Ministri aveva emanato una serie di direttive, stabilendo fra l'altro che gli insegnanti e gli alunni di religione ebraica venissero espulsi da tutte le scuole del Regno. Nel giro di pochi giorni erano scomparsi da palazzo Campana il nostro amatissimo professore di Filosofia del Diritto e una quindicina di compagni di corso.

L'unica ragazza ebrea che aveva continuato a frequentare regolarmente le lezioni era stata proprio Myriam Veronesi, che da qualche settimana si faceva vedere sempre più spesso in compagnia di Carlo Audisio. Era evidente che le due cose erano connesse fra loro, e ne avevo avuto la prova la sera in cui avevo visto per la prima volta Audisio in casa di lei. Il mio binocolo mi aveva raccontato per filo e per segno, come se stessi leggendo in un libro aperto, l'imbarazzo delle due donne, che inutilmente si sforzavano di apparire disinvolte e allegre, e la prosopopea al limite della strafottenza dell'uomo, che si aggirava per la casa osservando i quadri appesi alle pareti e prendendo in mano i soprammobili come se lui fosse il padrone di casa e loro le sue ospiti.

All'inizio del '39, anche Myriam aveva smesso di frequentare le lezioni dell'Università, ma le visite di Audisio in casa Veronesi si erano andate invece infittendo. Almeno una volta la settimana passava dalle due donne, annunciandosi con una telefonata e fermandosi a cena o passando più tardi a prendere un caffè; e dal mio osservatorio avevo incominciato a intuire che il clima, fra quelle mura, stava cambiando rapidamente.

Era come assistere alla proiezione di un vecchio film muto, reso ancora più drammatico proprio dal fatto di essere privo di colonna sonora. I dialoghi fra madre e figlia assumevano sempre più spesso, di volta in volta, toni aspri o dolenti. Non di rado, soprattutto dopo che la radio aveva dato notizia di nuovi incidenti in Germania o di nuove leggi antiebraiche in Italia, le avevo viste piangere a turno, mentre quella delle due che in quel momento pareva più forte si sforzava di consolare l'altra. Altre volte assistevo a discussioni accese, se non addirittura violente, come se Myriam cercasse di convincere la signora Veronesi di qualcosa di cui lei non voleva sapere. Più di una volta la vidi uscire dal salotto sbattendo la porta, salvo poi ritornare dopo qualche minuto ad abbracciare la madre in lacrime e a chiederle scusa.

Su cosa vertessero queste discussioni lo avevo capito solo verso la fine dell'anno, collegando fra loro fatti diversi, in parte noti a tutti e in parte noti a me solo. La guerra era ormai incominciata, anche se Mussolini si trincerava ancora dietro alla formula della "non belligeranza" nel tentativo di restarne al di fuori; la situazione degli ebrei italiani diventava comunque sempre più difficile, causa il divieto ormai totale di partecipare ad attività sia sociali che commerciali; dai compagni di corso avevo appreso che Carlo Audisio era diventato il responsabile nazionale del coordinamento dei GUF con i gruppi della "Hitler-Jugend", aumentando così di prestigio, potere e arroganza; la signora Veronesi aveva preso l'abitudine di uscire talvolta poco prima dell'ora di cena (e il fatto che ogni volta, dopo che era uscita, arrivasse l'Audisio mi confermava che la sua visita era stata annunciata); e Myriam, rimasta in casa da sola ad accogliere il suo vecchio compagno d'università, sembrava accettare di buon grado un corteggiamento sempre più pressante.

Di buon grado? Mah. Mentre li osservavo parlare e ridere sul divano in salotto, e spiavo i tentativi di lui di andare al di là di qualche bacetto e i sorrisi con cui lei si schermiva, mi sembrava di assistere a normali duetti fra innamorati e mi sentivo morire di gelosia e di rabbia. Ma poi, quando poi l'uomo se n'era andato, con l'aiuto delle mie due lenti rotonde vedevo affiorare sulla faccia di Myriam una tale espressione di tristezza che mi sentivo in qualche modo rinascere, perché il sospetto di un flirt cedeva il passo a quello di un odioso ricatto.

Più volte ho deciso di non salire più lassù a farmi del male, ma ci sono ricascato ogni volta: un po' per il piacere che continuavano a darmi l'osservare il mondo dall'alto e il penetrare nell'intimità della gente, e un po' per il masochistico impulso a seguire l'evolversi del rapporto fra Myriam e Carlo. E fra questi alti e bassi sono arrivato a pochi giorni or sono, quando a poche ore di distanza è scoccata, sia per il Paese che per il nostro singolare triangolo amoroso, quella che Mussolini ha definito "l'ora delle decisioni irrevocabili".

Non so se Audisio avesse deciso di festeggiare a suo modo l'entrata in guerra o se ciò che vidi quella sera dall'alto del mio osservatorio sia successo per caso. Forse fu l'abbondanza di liquori di cui lui si servì, o forse l'euforia perché come molti fascisti vedeva finalmente iniziare la grande avventura: fatto sta che quando si trovò seduto al fianco di Myriam incominciò a farle delle avances più pesanti del solito. A un certo punto le passò un braccio dietro le spalle. Lei cercò di schermirsi ridendo come spesso aveva fatto in passato, ma questa volta l'uomo non si lasciò scoraggiare, e senza preavviso affondò nella scollatura della ragazza la mano con cui le stava accarezzando il collo. Alla sua violenta reazione la strinse col proprio corpo nell'angolo del divano, bloccandole le gambe con le sue mentre cercava di baciarla. La resistenza di Myriam si fece disperata, e i violenti strattoni con cui cercava di liberarsi dovettero indispettire l'uomo, che a un certo punto perse ogni ritegno, agguantò la camicetta di lei e incominciò a lacerarla. Ebbi il tempo di intravedere il biancore di un seno e una gamba di lui che si incuneava a forza fra le ginocchia della ragazza, prima che un gesto di lotta più violento degli altri facesse ribaltare il tavolino su cui stava la lampada e piombasse la stanza nell'oscurità, privandomi del voluttuoso tormento di vedere che cosa sarebbe seguito.

La pellicola si era spezzata, il film muto si era interrotto nel momento più drammatico, la sala era rimasta al buio. E quel buio rimasi a fissare come inebetito, senza staccare dagli occhi il binocolo, per un tempo che non saprei valutare.

Poi, finalmente, la luce tornò.

Era stato l'uomo ad accendere il lampadario centrale del salotto. Era in piedi accanto alla porta e si rassettava le vesti, guardando la povera creatura che si trovava a pochi passi da lui. Sconvolto, rimasi anch'io a osservare per qualche secondo il corpo di Myriam riverso sul divano, le spalle nude squassate dai singhiozzi, il volto nascosto fra i cuscini chiazzati di sangue. Poi, lui disse qualcosa: una frase brevissima, forse una sola parola, pronunciata con aria minacciosa e beffarda prima di girare le spalle, attraversare l'ingresso e chiudersi alle spalle la porta di casa.

Lo persi di vista, ma il mio binocolo andò ad aspettarlo giù in basso. Quell'uomo era appena stato condannato a morte, e dovevo capire se e come la sentenza poteva essere eseguita.

Ero troppo in alto per riuscire a vedere il portone dell'edificio, e per un attimo temetti che lui potesse andarsene a piedi, protetto dai portici. Ma per fortuna accanto al marciapiede c'era quella Lancia Lambda color verde scuro che da qualche mese scatenava i commenti invidiosi di tutto palazzo Campana. Dopo due o tre minuti Carlo Audisio sbucò dall'arcata del portico, ci salì sopra e la mise in moto. Non l'accompagnai con il binocolo quando partì, visto che ormai sapevo quello che volevo sapere. Preferii tornare a mettere a fuoco le finestre di casa Veronesi, che però a quel punto trovai tutte buie.

L'indomani feci con calma i necessari preparativi: mio padre aveva sempre amato la caccia di selvaggina anche grossa, e poco prima di morire si era comperato un modernissimo fucile Mauser a cannocchiale. Lo tirai fuori dal sottoscala in cui lo avevo nascosto, ne verificai il corretto funzionamento, acquistai trenta metri di corda robusta e sottile e la fissai a uno zaino in cui avevo stivato una provvista di cibi in scatola che mi sarebbero bastati per alcuni giorni. Poi aspettai che annottasse, ed eccomi qui.

Sono arrivato in cima, adesso. Apro la botola e mi sistemo come posso sull'ultimo scalino, fra i piedi del re. Poi afferro la corda che mi sono legato in vita e pian piano incomincio a tirarla. Poco dopo, il Mauser emerge dall'oscurità del pozzo. Taglio un paio di metri di corda e assicuro il fucile a una delle sbarre che tengono ancorata la statua al piedistallo, perché non vorrei che un movimento malaccorto me lo facesse cadere di sotto. Nel mirino del cannocchiale individuo facilmente il tratto del controviale sul quale Audisio parcheggia di solito la sua automobile, e mi dispongo all'attesa.

Le finestre delle due Veronesi sono buie. In quelle poche altre che sono ancora illuminate vedo per lo più persone riunite intorno alla radio: come Cino e Franco, che per ascoltare il notiziario della notte hanno perfino sospeso la costruzione del loro modellino; come Gordon e Dale, che poi di punto in bianco corrono in camera da letto, si spogliano in fretta e fanno l'amore quasi con furia, come per esorcizzare le ombre di un futuro ignoto; o come Burma, che è seduta sul bordo del letto in reggiseno e reggicalze e si sta ripassando lo smalto sulle unghie dei piedi.

Passa tutta la notte, col sonno che mi coglie a intermittenza: fino a che l'alba spunta su un nuovo giorno, e su un Paese che evidentemente sta incominciando a capire che la guerra non è più solo una parola eccitante ma una nuova e più angosciosa dimensione di vita. Essere in guerra non vuol dire soltanto sentirsi eroici e fascisti, ma anche tante altre cose: per esempio prevedere il rischio dei bombardamenti e l'urgenza di occultare il più possibile le luci della città agli incursori nemici. La radio, ieri sera, ha sicuramente confermato le disposizioni sull'oscuramento di cui si parlava da giorni. Vedo infatti che in quasi tutti gli alloggi ci sono persone che si arrabattano con chiodi e martello o con strisce di carta gommata, fissando rotoli di carta nera o tende scure ai vetri e alle ciambrane delle finestre, in modo che da fuori non si possa vedere la luce. Ho l'impressione che sul mio teatrino stia calando il sipario: e infatti, quando annotta, le tenebre mi circondano con inusitata severità. Nella città che ancora non dorme ma sta imparando a trattenere il respiro brillano ormai solo poche luci di colpevoli ritardatari. E il mio palcoscenico di colpo si è fatto oscuro e deserto.

Ma di ciò non mi importa poi molto: non sono più qui nelle vesti di innamorato o di complessato guardone, ma in quelle di giustiziere. Aspetto un uomo che ho condannato a morte. Oggi non si è visto ma domani chissà. Mi sono organizzato per passare qui tutto il tempo che serve, perché so che presto ritornerà: tutti i libri gialli dicono che i criminali ritornano sempre sul luogo del crimine, e questo è tanto più probabile quanto più hanno la possibilità di reiterarlo.

Anche il secondo giorno passa senza che nulla di rilevante succeda. Ci sono meno automobili in giro, mentre passano più camion militari o civili, carichi di soldati o di materiale di vario genere, sacchetti di sabbia, transenne e rotoli di filo spinato. Un paio di questi si fermano anche alla base del monumento, ma così vicini che da quassù non riesco a vederli senza correre il rischio di scivolare e cadere di sotto. Molte finestre sono aperte, poiché siamo in giugno e fa caldo, e intravedo anche le due Veronesi, sedute sul maledetto divano i cui cuscini sono stati rivestiti da una spessa coperta. La figlia è rannicchiata accanto alla madre con la testa abbandonata sulla spalla di lei, che le accarezza adagio i capelli; parlano a tratti, più spesso guardano entrambe nel vuoto in silenzio; finché non le vedo trasalire per qualcosa che capisco essere il suono del telefono solo quando Myriam allunga stancamente una mano, stacca il ricevitore e rimane per qualche secondo in ascolto. Quando lo posa, il mio binocolo mi aiuta a leggere una domanda, già presaga della risposta, negli occhi dell'anziana; e a vedere la testa della giovane che si china appena in un rassegnato cenno di assenso.

Poi cala il crepuscolo e le finestre si chiudono - una dopo l'altra. La notte, improvvisamente ostile, riprende il controllo della vita di uomini e donne. Per la strada ci sono ormai pochi radi passanti, e anche se non riesco a vederla sarei pronto a scommettere che fra i pochi c'è una madre costretta a lasciare libero il campo.

Le montagne all'imbocco della Val di Susa sono ormai quasi scomparse nel buio quando dall'angolo di corso Vinzaglio vedo apparire i fari di un'automobile che imbocca il controviale di corso Vittorio, arriva fino al mio incrocio e incomincia a girare intorno al rondeau.

Non perdo tempo a verificare con il binocolo: adesso ho uno strumento più adatto.

Imbraccio il Mauser con calma e avvicino all'occhio il mirino telescopico. Nello spazio rotondo, intercetto i fari dell'automobile e li accompagno fino a quando vanno a fermarsi davanti all'edificio in cui vivono le Veronesi. Ora che la vettura è ferma ho la conferma che si tratta della Lambda di Audisio, anche se è così scura da mimetizzarsi ormai nella notte.

Vedo brillare nell'ombra la fiammella di un accendino. E quando, poco dopo, il guidatore apre lo sportello e scende, la sigaretta accesa mi serve da riferimento. Porto l'incrocio delle coordinate del mirino venti centimetri al di sopra del puntino rosso, che in questo momento sta diventando ancora più rosso, e premo il grilletto.

Lo sparo risuona secco, amplificato dal silenzio. L'uomo si arresta di colpo, come sorpreso; poi ruota lentamente su se stesso e crolla a terra.

Tutto quello che segue non mi interessa più: un grido alto, isolato, che mi fa pensare al finale della Cavalleria rusticana. Altre forme umane che si avvicinano di corsa a quella che adesso è distesa a terra immobile. Dopo qualche minuto, sirene e luci lampeggianti, due macchine, un'ambulanza. Alcune finestre, poche, si sono aperte - talvolta la curiosità può essere più forte della paura - ma tornano a chiudersi appena l'ambulanza sulla quale è stato caricato il corpo si allontana verso il Mauriziano.

Anch'io richiudo la botola, scendo con cautela e mi rannicchio alla base della scaletta. Tiro fuori dallo zaino alcune scatolette, i miei prediletti Racconti di Edgar Allan Poe, la lampada a acetilene. Ora che ho fatto ciò che era giusto fare posso anche rilassarmi e cercare, compatibilmente con il poco spazio a disposizione, di passare le prossime ore nel modo meno scomodo possibile. Un dirigente del Fascio ucciso in circostanze non chiare non è cosa da passare sotto silenzio. Ci saranno perquisizioni, perizie balistiche, interrogatori, ma sfido chiunque a capire che il colpo è partito da Sua Maestà Vittorio Emanuele II. Qui intorno stanotte e domani ci sarà un gran movimento, ma scommetto che tra un paio di giorni potrò aprire la porticina, assicurarmi che nessuno sia rimasto di guardia e tornarmene a casa.

Poi mi rifarò vivo con Myriam. Può darsi che adesso le facciano schifo tutti gli uomini, ma forse un mezzasega innamorato sarà disposta a accettarlo. Chissà se in qualche cinema parrocchiale danno ancora Luciano Serra pilota.

* * *

Il dottor Giovanni Jannacci, Giudice per le Indagini Preliminari, aprì la cartellina color cenere. Mentre scorreva alcuni dei fogli che c'erano dentro, diede un'occhiata al suo collega Cattaneo, Pubblico Ministero, seduto di fronte a lui, sul lato opposto della scrivania.

- Insomma - disse - Tu mi stai dicendo che non possiamo fare altro che archiviare questa faccenda fra i casi irrisolti...

- Quando avrai preso visione dei fatti te ne convincerai anche tu - rispose Cattaneo - Se si trovano i resti di una persona deceduta più di mezzo secolo prima, non restano molti elementi per identificarla. Soprattutto se non ha addosso nessun documento, e se la cosa è successa in un periodo sul quale gli archivi hanno più buchi di un formaggio svizzero.

- I primi anni di guerra, se ho capito bene...

- Mah... Il medico legale ha solo potuto dire che si trattava di un individuo di sesso maschile e di statura inferiore alla media, e che la morte risale a più di cinquant'anni fa. Ma se, come sembra probabile, questo fatto è legato in qualche modo all'omicidio mai chiarito di quel tale Audisio, abbiamo una data più precisa: 12 giugno 1940, due giorni dopo la dichiarazione di guerra a Francia e Inghilterra.

- Abbiamo qualche prova che esista un legame fra le due cose?

- Nessuna. Ma quando la Consulta per la Valorizzazione dei Beni Culturali ha avviato il restauro del monumento, nel quadro delle iniziative per il nuovo millennio, e all'interno della struttura hanno trovato quello che hanno trovato, il commissario Catalano è andato a spulciare gli archivi, e fra i casi rimasti in sospeso è saltato fuori l'omicidio di questo Audisio. A quanto pare, costui aveva una relazione con una ragazza ebrea che lui proteggeva e che abitava in una delle case all'incrocio fra corso Vittorio e corso Galileo Ferraris. Quando fu ucciso stava appunto andando a trovarla, ma non si riuscì a capire da dove fosse partito il colpo: le perizie balistiche stabilirono che arrivava da un'altezza di una trentina di metri, e da una direzione in cui non c'era nulla, se non il monumento a Vittorio Emanuele. E il fucile che adesso è stato trovato alla base della colonna portante ha lo stesso calibro della pallottola che aveva ucciso l'Audisio.

- Ma possibile che nessuno si sia ricordato che l'interno del monumento è cavo? In fondo erano passati solo quarant'anni dalla sua costruzione...

- Sì, ma probabilmente da quarant'anni più nessuno ci entrava, e se n'era persa memoria. E poi, considera che eravamo appena entrati in guerra: la cosa stava creando problemi ben più gravi e l'omicidio passò presto in secondo piano, anche se la vittima era un pezzo abbastanza grosso del Fascio piemontese.

Jannacci si era soffermato su uno dei fogli:

- Leggo qui che tra le cose trovate insieme al fucile, alla base della colonna, c'erano anche molte scatolette di cibo, vuote. Questo farebbe pensare che il presunto assassino non avesse affatto deciso di morire lì dentro, e prima o poi volesse andarsene. Perché non l'ha fatto?

- Questo probabilmente non lo sapremo mai. Però Catalano ha avanzato un'ipotesi che mi sembra sensata. Tu sai che quando siamo entrati in guerra alcuni dei monumenti più importanti sono stati protetti con tralicci e sacchetti di sabbia per impedire che venissero danneggiati nel corso di eventuali bombardamenti. Sicuramente era stato fatto un intervento del genere in Piazza San Carlo per il "Caval 'd Bruns", ne resta testimonianza nelle foto e nei documenti filmati dell'epoca... Allora, supponiamo che anche alla base del monumento di corso Vittorio fossero stati ammucchiati dei sacchetti di sabbia: la porticina che dà accesso alla colonna si apre verso l'esterno, e se c'era stato messo contro qualcosa di molto pesante da dentro non la si poteva certamente più aprire.

- Sì, è possibile... Quello che non riesco a capire è perché i resti dell'uomo fossero legati ai tiranti della statua, in cima alla scaletta, mentre il fucile e le altre sue cose si trovavano nel vano alla base.

- Infatti è strano... E' come se quando si è reso conto che non poteva più uscire avesse deciso di morire guardando la città dall'alto.

- Non riesco a pensare a una sola ragione sensata per una scelta del genere... Mi guarderò la pratica, ma mi sembra fin d'ora di poter essere d'accordo con te sull'archiviazione. Piuttosto, c'è un'altra cosa che mi preoccupa molto...

- Che cosa?

Jannacci si mise a ridere:

- Io sto in via Magenta, a un isolato dal monumento, e dalla finestra della mia stanza da letto vedo Vittorio Emanuele che sembra camminare sui tetti... Ho l'impressione che d'ora in poi chiuderò le persiane ogni sera: mi sarà difficile non aver l'impressione che qualcuno mi stia osservando...

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