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I SEGNI DEI SOGNI

II cinema ha compiuto il suo primo secolo di vita: una miriade di iniziative ce lo ha ricordato e ormai non c'è chi non lo sappia. In un film prodotto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Vittorio Gassman ha illustrato i festeggiamenti approntati in Italia per questa ricorrenza a un pubblico eccezionale che, infrangendo le barriere del tempo, ha visto riuniti in una stessa platea gli attori più importanti del cinema di ogni tempo e paese: da Charlie Chaplin a Marilyn Monroe, da Greta Garbo a Robert De Niro, da Humphrey Bogart ad Arnold Schwarzenegger.
Per la verità, dietro al clima gioioso che si impone in ogni festa di compleanno si nasconde una realtà che non è affatto esaltante: soffocato dalla degenerazione del gusto di questa fine millennio e vampirizzato da una figlia degenere chiamata televisione, il cinema i suoi anni non li porta per niente bene. Ma non essendo questo il luogo più adatto per un cahier de doléance, sarà meglio che indossiamo anche noi un abito da cerimonia per partecipare in qualche modo alle feste del centenario.

In che modo abbiamo pensato di farlo? Ripercorrendo questi cent'anni non tanto attraverso i film (da un anno a questa parte c'è stata una vera inflazione, su giornali e riviste di ogni genere, di Storie del cinema in pillole o all'ingrosso) quanto attraverso i manifesti del cinema: senza nessuna pretesa di essere esaustivi, per carità, ché sarebbe follia pensare di riuscire a compendiare cent'anni di pubblicità cinematografica in poche pagine. II nostro percorso sarà quindi puramente esemplificativo: ci limiteremo a tracciare alcune linee di tendenza, tenendo d'occhio, sì, la Storia del cinema, ma anche e soprattutto quella della grafica.
Sì, perché vale anche per il manifesto cinematografico quello che più volte si è detto e si è scritto a proposito dell'illustrazione e della grafica del Novecento: e cioè che c'è stato, fin dai primi anni del secolo, un fitto gioco di scambi e di rimandi fra Ie correnti figurative "adulte" e tutto quello che potremmo definire l'indotto delle arti applicate: dalle illustrazioni dei libri alle carte da parati, dalle figurine agli involucri delle confezioni, dai fumetti alla pubblicità, dovunque si andasse imponendo la necessità di comunicare per mezzo delle immagini, in ossequio a quelle regole di sintesi e di efficacia che sono proprie della grafica moderna.
Purtroppo, come molte delle cose citate, i manifesti cinematografici sono sempre stati confinati nella Suburra delle arti figurative, in territori sbrigativamente indicati con il cartiglio "hic sunt leones". Solo da qualche anno, grazie all'opera di appassionati e collezionisti (come Armando Giuffrida o Stefano Dello Schiavo), ci si è cominciati a rendere conto che appartengono anch'essi alla storia culturale del Novecento, e che anzi ne costituiscono uno dei capitoli più ricchi e godibili. Da alcuni anni a questa parte se ne vanno organizzando addirittura delle mostre, come "Cortocinema" (curata dall'Assessorato alla Cultura del Comune di Roma) o come quella che si è svolta nel maggio del 1995 alla Galleria del Mascherino di Roma. Dopo anni di anonimato, il manifesto di cinema si avvia quindi a diventare, con un gioco di parole di cui non conosco l'autore ma che mi sembra estremamente felice, "il segno di un sogno": ovvero I'aspetto più tangibile di una cosa intangibile (il film) che ha rappresentato nel XX secolo la forma più popolare di intrattenimento e di evasione.

Cominciamo dall'inizio, e cioè da quel 1895 che è l'anno di nascita ufficiale del Cinematografari Lumière. Nelle affiches litografiche che ne annunciano i primi spettacoli non è difficile rintracciare le ascendenze impressioniste di Henri de Toulouse-Lautrec e di Jules Cheret: ascendenze che "rompono" decisamente con le incisioni ottocentesche utilizzate fino ad allora per reclamizzare gli spettacoli delle lanterne magiche.
Nato come curiosità da circo equestre, lo "spettacolo cinema" subisce comunque una rapidissima evoluzione sociale e culturale, passando nel giro di pochi anni dal baraccone alla sala, dall'effetto ottico fine a se stesso alla narrazione di vere e proprie "storie". Che genere di storie? Per i primi anni si tratta soprattutto di vicende di passione e di morte, di melodrammi derivati dai romanzi d'appendice (soprattutto francesi) e dalle opere liriche (soprattutto italiane). Ed ecco allora riaffiorare nei manifesti l'ingenua iconografia dei feuilletons ottocenteschi, eroine con gli occhi sbarrati, ceffi da galera, posizioni disarticolate da marionette: tutto un repertorio che, acquistando il colore, perde le caratteristiche grafiche delle dispense popolari da cui deriva (rigorosamente in bianco-nero) per acquistare quelle dei cartelloni dei cantastorie siciliani o quelle, ancora più naives, degli ex-voto religiosi. (Curiosamente, questa iconografia ottocentesca viene spesso inserita in una architettura dell'immagine e dell'ornamentazione che è tutt'altro che naive, e che rinvia direttamente a William Morris e a quel suo straordinario volgarizzatore che fu Alphonse Mucha: poiché non bisogna dimenticare che proprio in quegli anni la cultura figurativa europea è squassata da una rivoluzione di discendenza preraffaellita che si chiama, a seconda dei Paesi, art nouveau, liberty o Jugendstil).
Fra i nomi di coloro che si dedicano in questo primo periodo al manifesto cinematografico, non mancano quelli di cartellonisti di vaglia: come Achille Mauzan o Leopoldo Metlicovitz, che nel 1914 firma uno dei manifesti di quel Cabiria che costituisce il primo grande successo internazionale del cinema italiano.

La cosiddetta Belle époque (l'epoca del liberty, dei Balli Excelsior e dei Balletti Russi di Diaghilev) viene brutalmente spazzata via dalla prima guerra mondiale, che ne sostituisce le immagini cattivanti e leziose con quelle, ben più drammatiche e provocatorie, dell'espressionismo tedesco e del costruttivismo russo. Queste tendenze di avanguardia, saldandosi con l'eredità dell'art nouveau, determinano a loro volta la nascita dello stile déco, il cui segno grafico, più nervoso e stilizzato, meglio si adatta all'epoca dell'emancipazione della donna e al futurismo.

Fra i primi e più significativi artisti che in questi anni si dedicano, come corollario di un'attività di costumisti e scenografi, alla pubblicità cinematografica, non si può non citare almeno Duilio Cambellotti, che dalla fine degli anni Dieci (Frate Sole, 1918) arriverà al dopoguerra (Fabiola, 1949), o Enrico Prampolini, che partendo dal manifesto in puro stile déco di Thais (1916) porterà avanti le bandiere del futurismo fino al 1942, anno in cui realizza le immagini per le brochures di tre lilm dell'ENIC. Nel periodo compreso fra l'avvento del sonoro (1929) e l'inizio della seconda guerra mondiale, il cinema italiano, condizionato dalla censura fascista, è caratterizzato soprattutto dalle commedie borghesi cosiddette "dei telefoni bianchi". II mondo privo di ombre della grafica déco si attaglia perfettamente a questo tipo di clima e non tarda a prendere possesso dei cartelloni cinematografici, con immagini eleganti, levigate e un po' fatue firmate da artisti come Marcello Dudovich, Giuseppe Riccobaldi o Anselmo Ballester. Nella maggior parte dei casi, queste immagini sono caratterizzate da una progressiva stilizzazione e da un appiattimento delle volumetrie: una strada che nel volgere di alcuni anni, complice anche il razionalismo geometrico del Bauhaus, condurrà al cosiddetto "stile littorio".

Senonché, man mano che gli anni Trenta trascorrono, l'orizzonte politico incupisce e parallelamente, in campo grafico, il déco incomincia a perdere senso e giustificazione, aprendo la strada a un massiccio ritorno del verismo. Che cosa significa, questo, in concreto? Significa tornare indietro di una trentina d'anni, cancellando le stilizzazioni e le deformazioni provocate da tutti gli "ismi" del Novecento e riproponendo volti, figure umane e paesaggi in chiave di naturalismo pittorico. E abbandonare nel contempo anche l'uso delle tinte piatte, tipico degli anni Venti e Trenta, in un rinnovato interesse per i chiaroscuri e i mezzi toni.
Questa nuova impostazione figurativa coinvolge, ovviamente, anche i manifesti dei film, e dà esiti immediati e vistosi soprattutto in Francia, ben adattandosi ai film del cosiddetto "realismo poetico", molto spesso dedicati ad eroi emarginati e perdenti, e attenti ad approfondire l'analisi di motivazioni e contraddizioni di carattere sociale. Ma anche in Italia si può notare una tendenza analoga, anche se utilizzata fino a guerra inoltrata per reclamizzare i drammi in costume e i film di propaganda bellica voluti dal regime fascista.

Fra un Luciano Serra pilota (1938) e un La cena delle beffe (1941), ci si avvicina agli anni della catastrofe e della guerra civile, e le forze migliori del cinema italiano incominciano a scrollarsi di dosso il giogo della censura fascista. Un film passionale e drammatico ambientato in un'Italia rurale ed autentica {Ossessione, 1942) apre quel nuovo straordinario capitolo della Storia del cinema che è il neorealismo italiano, e che dà al mondo i capolavori di Roberto Rossellini, di Luchino Visconti e di Vittorio De Sica.

C'entra, tutto questo, con il nostro discorso? C'entra, eccome. Prima di tutto per la continuità ideologica e tematica fra il "realismo poetico" francese e il neorealismo italiano (Visconti, non dimentichiamolo, ha cominciato la sua carriera come assistente di Jean Renoir); e poi perché il neorealismo italiano impronta di sè e della sua filosofia (nè può essere altrimenti) anche i manifesti dei film. A cavallo tra guerra e dopoguerra, ecco dunque scomparire definitivamente dai cartelloni cinematografici il mondo fatuo e stilizzato che il fascismo aveva imposto e che aveva trovato nel déco la sua cifra più elegante, ed affermarsi un nuovo mondo, ricco di dettagli, di ombre e di chiaroscuri, popolato da volti reali e da corpi di donna che ritrovano (al di là della "maschietta" tipica degli anni Trenta) una loro tridimensionale opulenza. Un mondo che ci accompagnerà fino all'inizio degli anni Cinquanta, con i manifesti di Alfredo Capitani, di Luigi Martinati e del già citato Anselmo Ballester, convertitosi a una sempre più corrusca tridimensionalità.

All'inizio degli anni Cinquanta, proveniente dagli Stati Uniti, sopravviene a scompigliare tutto la cosiddetta grafica moderna. E intendiamo con tale locuzione quel particolare complesso di codici figurativi di cui si servono tutti coloro che operano nei vari settori della comunicazione di massa, e soprattutto in quello pubblicitario. Le r´clames sono sempre esistite: ma le regole del gioco stanno cambiando velocemente, perché l'uomo della strada, con l'avvento della televisione, è sempre più bombardato da immagini in movimento, e quindi le immagini statiche rischiano di perdere gran parte della loro efficacia. Di conseguenza i messaggi pubblicitari affidati alla carta stampata (come gli annunci sui giornali e i manifesti stradali) devono essere concepiti in un modo nuovo, che colpisca immediatamente l'attenzione del lettore e del passante distratto; ed ecco allora avviarsi la sperimentazione di nuove soluzioni grafiche, in una ricerca di sintesi che, semplificando il messaggio e riducendolo a pochi elementi-chiave, ne aumenti la forza d'urto. Per ottenere questo risultato si stilizza la composizione, si reinventa l'uso del lettering, si ricorre a grandi campiture di bianchi e di neri. Nei manifesti cinematografici le facce dei "divi" e le immagini delle "scene-chiave" dei film perdono importanza a favore di elementi visivi molto elementari e simbolici ma di forte impatto emozionale. Quando le immagini sopravvivono sono comunque trattate in modo da perdere la loro concretezza: o ridisegnate con un segno grafico più moderno e stilizzalo oppure frantumale, impaginate e scomposte da campiture di colore utilizzate in modo del tutto irrealistico. La stessa fotografia, che si affaccia prepotentemente alla ribalta del manifesto, è spesso una fotografia da laboratorio, ottenuta attraverso procedure di sviluppo, stampa e impaginazione che tendono a stravolgerla.

La grafica moderna, come si è detto, nasce dalla pubblicità, e la pubblicità nasce negli Stati Uniti d'America. E' qui infatti che troviamo la personalità di maggiore spicco delle nuove tendenze: quella di Saul Bass, un grafico e pubblicitario i cui manifesti, da L'uomo dal braccio d'oro (1955) di Otto Preminger a La donna che visse due volte (1959) di Alfred Hitchcock e a West Side Story (1961) d Robert Wise, nascono molto più dall'atmosfera e dal "tema" del film a cui si riferiscono che non dalle sue immagini; e sono così innovativi e moderni da condizionare un po' tutta la comunicazione pubblicitaria dell'industria cinematografica nel mondo.

Sì, perché la rivoluzione della grafica moderna non tarda a rimbalzare al di qua dell'oceano: un po' per il dilagare in Europa, dal dopoguerra in poi, del modello di vita americano, e un po' per la progressiva accelerazione delle comunicazioni e la nascita del cosiddetto "villaggio globale", in forza del quale succede sempre più spesso che i manifesti originali americani vengano utilizzali in tutto il mondo occidentale, e quindi anche in Europa. Così, anche da noi si vanno affermando i nuovi codici di cui abbiamo parlato, il cui rappresentante di maggiore spicco resta probabilmente Ercole Brini. Tuttavia, accanto ad essi, resistono imperterriti gli antichi moduli veristi, affidati, oltre che ai "vecchi", a una pattuglia di nomi nuovi, Ira i quali (per citare solo alcuni fra i molti) Angelo Cesselon, Ermanno laia o Riccardo Geleng. L'unica novità è rappresentata dal fatto che questi moduli (che tutto sommato si rivelano ancora i più consoni al nostro gusto latino) vengono utilizzati adesso in forma più caricaturale, per esaltare sia le "maschere" della nuova "commedia all'italiana" che le doti delle nostre "maggiorate fisiche": con risvolti che sarebbero farseschi se non fossero invece drammaticamente rivelatori del clima politico dell'Italia di allora, come quando la censura interviene per sequestrare un manifesto di Angelo Putzu per Poveri ma belli (1956), con la doppia immagine di una procace ma vestitissima Marisa Allasio che cammina per la strada, vista da davanti e vista da dietro. Restano ancora da segnalare, a titolo di curiosità, una singolare iniziativa della Lux Film, che intorno agli anni Cinquanta affida alcune brochures pubblicitarie ad artisti di vaglia come Vespignani. Omiccioli, Gentilini o Greco; e una serie di gemellaggi fra arti figurative "maggiori" e "cinema di qualità", con Corrado Cagli che firma uno dei manifesti di Accattone (1961) di Pasolini; o Enrico Baj e Renato Guttuso che firmano rispettivamente quelli di Cadaveri eccellenti (1976) di Rosi e di Kaos (1984) dei fratelli Taviani. Siamo così arrivati ai giorni nostri, che sono contraddistinti, in molti settori dell'arte, dal cosiddetto stile "post-moderno": una etichetta che serve a mascherare pudicamente una certa mancanza di proposte originali, riciclando tutto ciò che è stato fatto negli anni (o nei secoli) precedenti. Per restare nell'ambito dei manifesti cinematografici, ecco dunque riaffacciarsi alla ribalta tutta una serie di stili grafici, di tecniche e di soluzioni figurative già incontrate lungo l'arco del Novecento: come l'importanza della cornice e del riquadro, che sia liberty o déco; i rigori geometrici e razionalisti del Bauhaus; i collages già prediletti dai surrealisti; le tinte piatte tipiche dei pochoir; l'aerografo utilizzato in chiave iperrealista e l'uso terroristico della luce, secondo i dettami della cultura musicale giovanile (con grande spreco di raggi laser e di tubi al neon).

Questa operazione di trashing, tra l'altro, fa sì che i professionisti del manifesto cinematografico siano sempre di meno (e vale la pena di citare almeno Renato Casaro, uno degli autori più validi della nuova generazione); mentre parallelamente aumentano le guest stars, prese in prestito dal mondo della grafica (Folon, Testa, Echaurren), della caricatura (Altan, Forattini) e del fumetto (Manara, Pazienza). II risultato del confluire su un unico "medium" di creativi tanto diversi per specializzazione e cultura visiva, determina una grande confusione, che magari ha momenti divertenti o addirittura geniali, ma resta sostanzialmente priva di una sua identità culturale. Se proprio vogliamo trovargliene una, e per quanto è possibile capire parlando di tendenze non ancora decantate dal tempo, ci potremmo azzardare a dire che la comunicazione visiva di oggi (e quindi anche quella dei manifesti cinematografici) è caratterizzata da una certa freddezza. Una freddezza forse anche imputabile all'iconosfera elettronica nella quale oramai viviamo: poiché la levigatezza e la mancanza di calore di molte immagini di oggi deriva anche dal fatto che la tecnica di generazione di esse passa sempre più spesso attraverso la tastiera del computer. E con questo la nostra galoppata attraverso cent'anni di manifesti di cinema si può considerare conclusa. Resta solo da rammaricarsi del fatto che di troppi manifesti, per Ie ragioni di cui si diceva all'inizio, non si conosca l'autore. Manca intatti a tutt'oggi un'ampia e organica opera bibliografica sull'argomento; e chiunque ami non solo il cinema ma anche le immagini (e soprattutto le immagini non accademiche e ufficiali) di questo secolo che volge alla fine, non può che auspicare che questa lacuna venga al più presto colmata.

(Vita Italiana - Cultura e Scienza, dicembre 1995 - ?)

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