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(Era la seconda metà degli anni Novanta, e dopo Un posto al buio mi vennero chiesti dallo stesso editore dei racconti "gialli" di poche pagine da pubblicare su un quotidiano. Ne scrissi due e nessuno dei due fu accettato. Il volere degli Dei si svolgeva nell'antica città etrusca di Veio, e fu pubblicato solo nel 2002 su "La quercia", il periodico interno di un comprensorio residenziale nei dintorni di Roma che dalle rovine di Veio dista pochi chilometri).

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IL VOLERE DEGLI DEI

Il santuario dedicato a Minerva era nel fondovalle, ai piedi dell'altopiano di Veio. Da lì si sentiva il rumore del fiume Cremere, che dopo avere aggirato il dirupo e attraversato la galleria del Ponte Sodo superava una serie di dislivelli, correndo al suo appuntamento col Tevere. Guardando con attenzione, si poteva anche intravedere la cascata più a valle, laggiù, fra i cespugli verdi che l'ombra della sera stava tingendo di nero.

Laris Velcha alzò lo sguardo al cielo, e con doloroso stupore si rese conto che l'ombra non stava calando sul mondo, ma soltanto su di lui. Poichè il sole splendeva ancora alto nel cielo, e il giorno era lungi dal potersi considerare concluso.

Fu così che l'uomo seppe che stava morendo. Per l'ultima volta sfogliò il libro della sua vita, rileggendo la sua adolescenza felice, il sorriso luminoso della giovane donna che gli aveva insegnato l'amore, la sua vocazione tardiva che lo aveva portato fra gli aruspici del tempio dedicato a Minerva. Risentì il peso della responsabilità che aveva portato in tutti quegli anni, i dubbi che lo avevano costantemente travagliato: com'era difficile, spesso, decidere cosa era giusto e cosa sbagliato, sapendo che il proprio responso poteva modificare il destino di un popolo intero...

Ripensò anche alle dispute con gli altri sacerdoti, molto più disinvolti di lui nell'interpretare la volontà degli Dei, e in modo particolare al diverbio che lo aveva condotto allo scontro finale. Abbassandosi lo sguardo sul petto, osservò incredulo la punta insanguinata che ne usciva: la punta del caduceo di Mercurio che Velthur Velianas gli aveva conficcato nella schiena, dopo averla sottratta con mano sacrilega alla statua del Dio.

Tutto questo avvenne in pochi secondi, forse tre, forse cinque; poi il buio divenne totale e l'uomo si accasciò senza vita nel peristilio del tempio.

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Velthur Velianas si avvicinò al corpo immobile e ne osservò per l'ultima volta il profilo aquilino, i capelli bianchi che dalla sommità del capo scendevano fino alle spalle.

Vecchio sciocco, pensò: possibile che dopo tanti anni credesse ancora che gli Dei fossero così infantili da gingillarsi, per manifestare il loro volere, con una serie di puntini scuri in capricciosa evoluzione nel cielo, o con le volute di fumo che si alzavano da un ammasso di viscere calde?

Lui, come tutti gli altri, non ci aveva impiegato molto a capire che le regole del gioco erano affatto diverse. E' vero: era un fatto acquisito nella loro cultura che la volontà degli Dei si esprimesse attraverso i fenomeni della natura; ma l'interpretazione di questi fenomeni spettava a loro, gli aruspici, e ciò significava avere un potere immenso, che sarebbe stato da sciocchi non usare, più che per il tornaconto degli Dei, per quello dei loro sacerdoti.

Così, quando quel falso pellegrino si era palesato per quello che era, un inviato di Roma, e aveva offerto quell'incredibile quantità d'oro solo perchè avallassero coi loro responsi un destino che era scritto ormai nella Storia, Velianas aveva trovato assurdo innalzare fra loro e la fortuna una barriera di scrupoli. E poichè Laris Velcha minacciava di deferire la cosa agli anziani, si era assunto presso i compagni del tempio il compito di ucciderlo e di farlo sparire.

Afferrò le ali e i serpenti intrecciati della verga divina e con un colpo deciso la strappò dalla schiena del vecchio. Con cura, la nettò del sangue e la mise da parte; poi tolse il coperchio del vecchio pozzo in disuso, sul fondo del quale rumoreggiava l'acqua di un affluente sotterraneo del Cremere. Trascinò lì vicino le spoglie di Laris Velcha e le spinse nel vuoto. Il corpo volteggiò su se stesso e scomparve nel buio, per poi, dopo qualche secondo, inabissarsi con un tonfo. Il confine non era lontano, e il cadavere non sarebbe riaffiorato se non nel territorio di Roma.

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Claudio Avicola si fermò sulla curva e si voltò a guardare la città di Veio, che scintillava sull'altopiano illuminato dal sole. Pochi passi ancora e la visione sarebbe scomparsa, e la sua missione si sarebbe potuta considerare conclusa.

Claudio Avicola poteva proprio essere contento di sè. Del suo travestimento, anzitutto. Nessuno aveva sospettato che sotto quell'abito da pellegrino si nascondesse in realtà uno dei più abili agenti segreti di Roma (oltre che uno dei più affascinanti, a dar retta all'opinione di molte matrone romane, e di molte vergini che sarebbero state ben liete di accettare il suo aiuto per cambiare di status).

Quell'ultima missione, poi, l'aveva condotta con una abilità magistrale. La guerra con gli Etruschi durava da troppo tempo, e Roma non riusciva a spuntarla: così, in Campidoglio, qualcuno aveva cominciato a pensare di ricorrere all'astuzia.

Gli Etruschi avevano una fiducia cieca, fatalistica, nel volere degli Dei, e un'antica profezia prevedeva la fine del loro popolo dopo dieci secoli di vita: termine che ormai non era più lontanissimo. Così, Claudio Avicola era stato incaricato di infiltrarsi in Veio e di corrompere gli aruspici del tempio di Minerva affinchè dessero una conferma definitiva e autorevole alla profezia. In Campidoglio era opinione diffusa che se fossero riusciti a convincere gli Etruschi che questa era la volontà degli Dei, essi si sarebbero, per così dire, "rassegnati"; e Roma avrebbe avuto finalmente ragione di quegli ingombranti vicini, aprendosi la strada verso la Gallia e le altre regioni del Nord...

Sì, Claudio Avicola poteva proprio essere contento di sè: solo uno dei sacerdoti aveva resistito al tintinnìo del suo oro, ma a levare di mezzo quell'unico sciocco e il suo anacronistico bagaglio di ideali, ci avrebbero pensato i suoi stessi compagni, senza bisogno che lui muovesse un dito. Un lavoretto pulito, insomma.

Ora poteva tornare a Roma, che non distava più di un paio di giorni di cammino, e concludere la sua missione fra le braccia calde di qualche femmina, come tradizione voleva. Il suo pensiero corse avanti, alla confortevole casa dove Flavia lo stava aspettando, con i suoi capelli di seta e il suo corpo giovane e pieno di vita. Una donna affascinante, Flavia: peccato che ogni tanto si lasciasse andare a certi discorsi da intellettuale, più adatti a un filosofo che non a un'amante...

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Dalla finestra si godeva uno splendido colpo d'occhio sul Campidoglio e sul Colosseo; e meno male che il vetusto monumento, ridotto per tanti anni a spartitraffico, adesso era stato parzialmente sottratto alla morsa delle macchine e dei gas di scarico, e riunito alle rovine del Foro.

Flavia era molto turbata, quella sera. La primavera incipiente le metteva addosso una mollezza, un languore che le facevano sospirare l'arrivo di Claudio. Ma soprattutto, il telegiornale aveva dato notizia del rinvenimento di un corpo nelle acque del Tevere, dalle parti di Prima Porta. A quanto pareva si trattava di un certo Velca, di cui Claudio talvolta le aveva parlato; e lei si domandava se il suo fascinosissimo amante, con quella morte, non ci avesse avuto qualcosa a che fare.

Flavia non ne sapeva molto, del lavoro di Claudio; ma aveva tutte le ragioni di credere che lui, benchè fosse in un certo qual senso un dipendente dello Stato, fosse immischiato in faccende non del tutto pulite. E questo Velca, responsabile di una battagliera televisione locale, aveva dato ombra ad alcuni personaggi molto noti e potenti, che inutilmente avevano tentato di mettere il bavaglio anche a quella piccola ma fastidiosa scheggia della galassia dell'informazione.

Osservando dalla finestra le rovine dell'antica Roma, Flavia pensò con tristezza a quanto poco essa fosse mutata in più di venti secoli di storia. Certo, erano cambiate le fogge degli abiti, le strade, le case; ma non era cambiata l'anima della città, l'arroganza del potere, l'abilità nel corrompere e l'ansia di farsi corrompere. I sacerdoti e i capi non parlavano più dalla scalinata di un tempio ma da un tubo catodico: e la gente, come venticinque secoli prima, continuava a credere ciecamente a ciò che dicevano, perchè era convinta che la loro voce, per il semplice fatto che usciva dalla TV, fosse quella degli Dei...

La giovane donna si riscosse, sentendo una chiave che girava nella serratura e un passo che risuonava nell'ingresso: un passo maschio, da autentico agente segreto. Claudio comparve sulla soglia, spazzando via con il suo sorrisetto affascinante e beffardo tutti i dubbi e i pensieri di lei. Aprì le braccia per accoglierla, e Flavia ci si rifugiò, vogliosa. In uno degli appartamenti vicini doveva esserci una televisione accesa, e nell'aria tersa della sera si sentiva, tempestiva e esaltante, la musica di qualche film di James Bond.

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